martedì 17 novembre 2009

Silvio Berlusconi, un povero uomo tanto sfortunato, e molto ricercato

Silvio Berlusconi, un povero uomo tanto sfortunato, e molto ricercato:
Lo vuole la Mafia: non ha mantenuto le promesse
Lo cercano le Nuove Brigate Rosse: favorisce il comunismo intelligente.
Lo cerca Al Queda: era complice di Bush
Lo cercano Magistrati, Tribunali, Finanza e Forze dell'Ordine:
"Sembra sia e sia stato complice organizzatore e partecipe di svariati crimini e reati"

Stragi del '93, l'indagine che agita Berlusconi:
I mandanti politici.
15 Novembre 2009 Claudia Fusani
C’è una data a cui palazzo Chigi guarda con apprensione: quando la Corte d’Appello di Palermo sentirà il superpentito Gaspare Spatuzza nel processo al senatore Marcello Dell’Utri già condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E c’è anche una procura a cui sempre palazzo Chigi guarda con attenzione: quella di Firenze che ha riaperto l’inchiesta sui mandanti occulti e sul livello politico delle stragi di Cosa Nostra nel continente (10 morti, 106 feriti, nel 1993 tra Firenze, Roma, Milano). Un’inchiesta «riaperta» esattamente dal punto dove era stata archiviata il 16 novembre 1998 quando il gip Giuseppe Soresina scrisse che «è altamente plausibile che i soggetti protetti nel registro mod.21 con le denominazioni Autore 1 e Autore 2 abbiano concorso moralmente all’azione stragista del soggetto Cosa Nostra» ma che «non erano stati reperiti elementi validi per il dibattimento». Un’inchiesta, coordinata dal procuratore Giuseppe Quattrocchi e dai sostituti Giuseppe Nicolosi e Alessandro Crini, che adesso sembra aver completato quel quadro probatorio grazie, e non solo, alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza. Viene definita «un’indagine semplice nel senso criminale del termine», che non va, cioè, «ad inseguire teoremi» e che «avrà tempi relativamente brevi».

«Il problema di Berlusconi non è nè Mills nè Mediaset, dicono i bene informati della maggioranza. Il problema è «Firenze», o Palermo, oppure Caltanissetta. Il problema riguarda un ipotetico coinvolgimento del Presidente del Consiglio, insieme con Marcello Dell’Utri nelle inchieste su Cosa Nostra e sulle sue connessioni politiche. Un problema, per cui si capisce meglio anche certa fretta nel Pdl per ripristinare l’immunità parlamentare.

La storia dell’inchiesta sui mandanti a volto coperto andrebbe raccontata dall’inizio, a cominciare dal pm, Gabriele Chelazzi (morto nel 2003) che con Vigna, allora procuratore, e Nicolosi cercò di dare ordine a una serie di «input investigativi» diventati ben presto «plausibile ipotesi investigativa». Occorre però partire dalla fine. Che sono le dichiarazioni, solo in piccola parte note, di Spatuzza, braccio destro dei fratelli Graviano, capi mandamento di Brancaccio, tra gli esecutori della strage di via D’Amelio e di quelle in continente. Spatuzza sedeva alla destra del padre, inteso come i fratelli Graviano a cui Riina e Provenzano avevano ordinato la strategia del terrore tra il ‘92 e il ‘93. Un ruolo che lo pone per forza di cose a conoscenza di tutti i segreti di Cosa Nostra, «in quel perido, tra la fine del ‘92 e i primi mesi del ‘94».

C’è un suo verbale raccolto dai pm fiorentini (titolari del collaboratore di giustizia) che dice chiaramente chi sono i referenti politici con cui la mafia avrebbe trattato e come. In un altro verbale rilasciato a Palermo il 6 ottobre si leggono i nomi di «Silvio Berlusconi, quello di Canale 5 e Marcello Dell’Utri». A Spatuzza ne parla Giuseppe Graviano, all’indomani della strage di Firenze (maggio 1993): «Si tratta di politica, c’è in atto una situazione che se va a buon fine ne avremo tutti i benefici, sia i carcerati che gli altri». E poi di nuovo a metà gennaio 1994, seduti al bar Doney di via Veneto: «Abbiamo il paese in mano» disse Graviano a Spatuzza, grazie all’interessamento «di persone di fiducia, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri» che da qualche mese stava organizzando la discesa in campo del Cavaliere con Forza Italia. Dopo pochi mesi i fratelli Graviano furono arrestati a Milano. Spatuzza molto dopo, nel 1997. Fatto sta che della strage allo Stadio Olimpico, ennesima e finale prova di forza per siglare la trattativa tra politica e Cosa Nostra e già saltata nel dicembre 1993 per un difetto nell’innesco, non se ne seppe più nulla.

Questo e molto altro («è un’indagine piena di riscontri») ha detto Spatuzza che si è pentito meno di un anno fa. Per gli investigatori fiorentini è l’anello mancante della vecchia indagine archiviata. Già allora avevano parlato, si legge nella richiesta di archiviazione del 1998, «Pietro Romeo che aveva quasi indicato il livello del concorso morale». E poi Ciaramitano, Pennino, Cancemi, per un totale di 23 collaboratori. Le cui dichiarazioni, tutte insieme, già nel 1998 dicevano: 1)«Cosa Nostra nell’intraprendere la campagna di strage ha agito di concerto con soggetti esterni»;
2)«Tra il soggetto politico-imprenditoriale di cui AutoreUno e AutoreDue, indicati come concorrenti del reato, e Cosa Nostra il rapporto è effettivamente sussistente e non episodicamente limitato»;
3)«La natura del rapporto era compatibile con l’accordo criminale». Quello che allora non fu del tutto possibile dimostrare è che «il soggetto politico imprenditoriale aveva sostenuto le aspettative di ordine politico (meno pressione giudiziaria sulla mafia, ndr) per il perseguimento delle quali la campagna di strage è stata deliberata e realizzata». Era la parte mancante. Adesso, forse, trovata. E riscontrata.


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1973/76 il mafioso Vittorio Mangano, già noto alle forze dell’ordine, lavora come fattore nella villa di Silvio Berlusconi, dove viene anche arrestato un paio di volte.

A presentare Mangano a Berlusconi, era stato Marcello Dell’Utri.

Dell’Utri aveva conosciuto Berlusconi a metà degli anni 60' quando si incontrano, alla facoltà statale di legge.

Dell'Utri torna poi in Sicilia, mentre Berlusconi, rimasto a Milano, inizia la sua carriera di imprenditore edile, con soldi di cui non si è mai saputa la provenienza.

Mangano ad Arcore più che uno stalliere, è un ospite di riguardo.

Siede a pranzo e cena con Berlusconi e invita ad Arcore i suoi amici siciliani, che poi i pentiti indicheranno come mafiosi latitanti.

Quando i magistrati a Dell'Utri domandano chi fossero, lui risponde che non erano tipi a cui fare domande!

Durante la permanenza alle “dipendenze” di Berlusconi, Mangano organizza il rapimento del principe D’Angerio, ospite dello stesso Berlusconi.

Nonostante fosse stato informato dai carabinieri del coinvolgimento del suo stalliere nel sequestro di persona, Berlusconi non licenziò Mangano e continuò a tenerlo per ancora due anni.

Fu poi Mangano stesso a voler andare via, anche se Dell'Utri e Berlusconi tentarono di fermarlo.

Il pentito Salvatore Cancemi , dichiarò che la FININVEST di Berlusconi, attraverso Marcello Dell'Utri e Mangano, pagava annualmente a Cosa Nostra, un pizzo di 200 milioni di lire.

Nel 80' Mangano viene arrestato da Giovanni Falcone.

Quell’anno a Londra si sposa il boss internazionale Jimmy Fauci. Tra gli ospiti, c’era Marcello Dell’Utri.

1) Vittorio Mangano: condannato all'ergastolo per duplice omicidio; condannato per Mafia nel processo "Spatola" istituito da Falcone; ulteriore condanna per traffico internazionale di droga nel maxi processo istituito da Falcone e Borsellino.
2) Marcello Dell'Utri: condanna definitiva a 2 anni, una in appello a 2 anni per estorsione mafiosa, ed una in primo grado per associazione mafiosa. Condannato a 9 anni.

1979 Pizza Connection è il nome di una indagine sul traffico di droga tra Italia e Stati Uniti avviata il 12 luglio 1979.

La morfina, proveniente dai paesi mediorientali, giungeva nel palermitano. Lì c'erano le "raffinerie" di droga, che la trasformavano in eroina, destinata al mercato americano, newyorkese in particolare. L'indagine è durata 4 anni; ma la svolta nella lotta alla micidiale eroina si ebbe quando la "commissione", la famosa cupola dei capi creata da Lucky Luciano, decise di eliminare il boss Carmine Galante, in contrasto con la commissione stessa perché voleva tenere sotto il suo controllo l'intero business della droga Sicilia-New York.

Dopo questa uccisione le indagini ebbero una svolta sorprendente come individuazione degli obiettivi da combattere: sia alla fonte (Totò Riina e i suoi "Corleonesi" che nel frattempo avevano preso il controllo delle raffinerie di eroina di Palermo) e alla destinazione, le insospettabili pizzerie aperte o rilevate dai siciliani fatti arrivare in quantità da Carmine Galante come i fratelli Miki ed Antony Lee Guerrieri parenti dell'ex boss milanese Giuseppe Guerrieri che a New York gestivano tutto l'import e lo smercio all'ingrosso dello stupefacente per John Gotti, capo della famiglia Gambino.

Si scoprirà in seguito, che il nome di Silvio Berlusconi compare già in questa indagine. Così come, compare il nome di Franco Della Torre, un cittadino svizzero che, secondo Scelsi, Procuratore di Bari, avrebbe usato ancora una volta il vecchio trucco utilizzato in precedenza per riciclare i narcodollari, per ripulire i soldi provenienti dal contrabbando che vede coinvolto il Montenegro,

15 febbraio 1983 la Banca Rasini sale agli onori della cronaca, per via dell'"Operazione San Valentino". La polizia milanese effettua una retata contro gli esponenti di Cosa Nostra a Milano, e tra gli arrestati figurano numerosi clienti della Banca Rasini, tra cui Luigi Monti, Antonio Virgilio e Robertino Enea. Si scopre che tra i correntisti miliardari della Rasini vi sono Totò Riina e Bernardo Provenzano e lo stesso stalliere Vittorio Mangano. Anche il direttore Vecchione e parte dei vertici della banca vengono processati e condannati, in quanto emerge il ruolo della Banca Rasini come strumento per il riciclaggio dei soldi della criminalità organizzata.

I giudici di Palermo, anche a seguito delle rivelazioni di Michele Sindona e di altri "pentiti", indicano la stessa banca Rasini come coinvolta nel riciclaggio di denaro di provenienza mafiosa

Michele Sindona nel 1984, quando il giornalista del New York Times, Nick Tosches, chiese a Sindona (poco prima della misteriosa morte di quest'ultimo): «Quali sono le banche usate dalla mafia?». Sindona rispose: «In Sicilia il Banco di Sicilia, a volte. A Milano una piccola banca in Piazza dei Mercanti». L'unica banca presente a Piazza dei Mercanti, al tempo, era inequivocabilmente la Banca Rasini.

Il padre di Silvio Berlusconi, Luigi Berlusconi fu prima un impiegato alla Rasini, quindi procuratore con diritto di firma, ed infine assunse un ruolo direttivo all'interno della stessa. La Banca Rasini, e Carlo Rasini in particolare, furono i primi finanziatori di Silvio Berlusconi all'inizio della sua carriera imprenditoriale. Silvio e suo fratello Paolo Berlusconi avevano un conto corrente alla Rasini.

La Banca Rasini risulta anche nella lista di banche ed istituti di credito che gestirono il passaggio dei finanziamenti di 113 miliardi di lire (equivalenti ad oltre 300 milioni di euro nel 2006) che ricevette la Fininvest, il gruppo finanziario e televisivo di Berlusconi, tra il 1978 ed il 1983.

1983: la Guardia di finanza, nell'ambito di un'inchiesta su un traffico di droga, aveva posto sotto controllo i telefoni di Berlusconi. Nel rapporto si legge: «È stato segnalato che il noto Silvio Berlusconi finanzierebbe un intenso traffico di stupefacenti dalla Sicilia, sia in Francia che in altre regioni italiane. Il predetto sarebbe al centro di grosse speculazioni edilizie e opererebbe sulla Costa Smeralda avvalendosi di società di comodo...». L'indagine nel 1991 fu archiviata.

Sempre agli inizi del ’90, viene fatta interrompere un’indagine della polizia svizzera, condotta dal commissario Fausto Cattaneo, proprio quando stava raccogliendo prove importanti su come i narcotrafficanti riciclavano il loro denaro.

La testimonianza di Cattaneo, accanto a quella del giornalista Sidney Rotalinti, denuncia i traffici di droga verso l'Europa e il riciclaggio di grandi capitali attraverso grandi gruppi finanziari come quello Fininvest.

Nome dell’operazione era “Mato Grosso”.

Nei rapporti di polizia ticinesi il nome di Berlusconi comparve all'inizio degli anni '90 ai margini dell'operazione Mato Grosso. Nel gennaio 1991 alla Migros Bank di Lugano, fallì una grossa operazione di riciclaggio di denaro di un cliente e fu arrestato il brasiliano Edu De Toledo. La procura federale, il comando di polizia e la procura ticinesi inviarono e fecero infiltrare nell’organizzazione il commissario di polizia ticinese Fausto Cattaneo.

Cattaneo scrisse nella sua relazione del narcotrafficante brasiliano Juan Ripoll Mary, il quale nel descrivere le sue operazioni di riciclaggio tramite 4 società di Panama rappresentate anche a Lugano, avrebbe affermato: "Il denaro che arriva dall'Italia proviene dall'impero finanziario di Silvio Berlusconi".

Stranamente, Carla del Ponte e le autorità di giustizia e di polizia competenti, archiviarono il caso.
Queste le interviste rilasciate da Cattaneo e Rotalinti:
1° filmato 2° filmato

3° filmato 4° filmato




Carla del Ponte, da Giudice del Canton Ticino, merita di essere ricordata per il depistamento e per il fallimento di molte indagini critiche, come quella del Mato Grosso, del Ticinogate, e del Russia Gate.

Non va inoltre dimenticato, come la stessa tentò d’intralciare le indagini del Giudice Giovanni Falcone quando indagava sulle Banche luganesi e sui loro rapporti con i boss mafiosi, cercando di nascondere i possibili collegamenti tra le finanziarie di Chiasso e i Caruana-Cuntrera.

Un’altra importantissima intervista, per comprendere quanto accadeva in quegli anni, è:
l’ultima intervista rilasciata dal Giudice Paolo Borsellino.

Di lì a poco, Falcone, Borsellino e le loro scorte, verranno fatti saltare in aria con il tritolo.

Silvio Berlusconi venne anche indagato per le stragi.


Anche Paolo, fratello minore di Silvio, pregiudicato per truffe da decine di milioni di euro,
ha un “incontro ravvicinato del terzo tipo” con ambienti mafiosi e individui dediti al traffico di stupefacenti:
Questa la storia:
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Decoder, Paolo Berlusconi e il socio di Cosa Nostra
Giuseppe Caruso/ Milano UNITA 21 FEBBRAIO 2008
Mafia, soldi sporchi, incentivi pubblici e interessi privati. Tutto cio' risulterebbe nell'inchiesta
sul misterioso rapimento di Giovanni Cottone ex socio di Paolo Berlusconi.
SOLARI.COM In questa società per la vendita di decoder Giovanni Cottone possedeva il 49% del capitale, il 51% era del fratello del leader di Forza Italia. Poi qualcuno ha cercato di rapire Cottone, la Procura ha indagato e ha scoperto la pista del riciclaggio e degli investimenti mafiosi. E anche altro...

di Giuseppe Caruso

Mafia, soldi sporchi, incentivi pubblici e interessi privati. C’è tutto questo sullo sfondo dell’inchiesta sul misterioso rapimento fallito ai danni di Giovanni Cottone, fino a pochi mesi fa socio al 49% di Paolo Berlusconi nell’azienda Solari.com. Adesso un pentito di quel rapimento, il suo uomo di fiducia per quattro anni, svela: «Giovanni Cottone faceva parte della malavita». Solari. com è la società salita all’onore delle cronache in quanto beneficiaria della legge che destinava un contributo statale all’acquisto dei decoder per il digitale terrestre. Il governo guidato da Silvio Berlusconi a quel tempo aveva fatto le cose in grande: non solo aveva previsto denaro pubblico per il fratello del premier (la Solari aveva iniziato a distribuire i decoder Amstrad del tipo mhp nel gennaio 2005, in concomitanza con il lancio del servizio pay per view Mediaset premium), ma addirittura si era premurato, attraverso alcuni articoli della legge Gasparri, di far sì che in Sardegna, regione pilota dello switch off (la definitiva transizione dal sistema televisivo analogico a quello digitale terrestre) l’unico decoder in grado di ricevere il segnale fosse proprio l’mhp distribuito dalla Solari.com. Il risultato era stato quello di far più che raddoppiare il fatturato dell’azienda (passata a 141 milioni di euro in un anno) e di ricevere diverse interrogazioni parlamentari a riguardo, che vedevano come primo firmatario il senatore dell’allora Ulivo Luigi Zanda. L’indignazione per quel regalo familiare era molta, ma sarebbe stata maggiore se si fosse saputo chi era in realtà Giovanni Cottone, il proprietario dell’altra metà della Solari.

Il mistero svelato

A svelare il mistero ci ha pensato uno degli uomini che nel giugno scorso aveva tentato di rapirlo, di nome Giuseppe Sanese, professione ufficiale: buttafuori. Gli altri arrestati erano stati la moglie di Cottone (in via di separazione) Giuseppina Casale, Antonio Cottone (uomo d’onore, zio di Giovanni), Giovan Battista Rosano (altro uomo d’onore, da tempo in affari con Cottone) ed il poliziotto Alfredo Li Pira. Il piano del gruppo era di rapire Giovanni Cottone, farsi consegnare almeno 40 milioni di euro ed eliminarlo. Un sequestro molto simile, secondo gli inquirenti, a quello che ha portato all’uccisione del finanziere Gianmario Roveraro. Il piano era saltato perché la moglie di Cottone, Giuseppina Casale (descritta in un informativa della guardia di finanza come «persona in contatto con i salotti della Milano “bene” ma al contempo con la malavita palermitana») era stata sottoposta ad intercettazioni ambientali da parte del Gico palermitano per questioni relative al traffico di droga. Questi avevano informato gli omologhi milanesi, che erano intervenuti, arrestando il gruppo. Sanese era stato per più di quattro anni l’uomo di fiducia dello stesso Giovanni Cottone e collaborando con gli inquirenti ha svelato non solo i dettagli del sequestro fallito, ma anche i rapporti di Giovanni Cottone con Paolo Berlusconi e con la mafia. Gli interrogatori di Sanese sono avvenuti alla presenza dei pubblici ministeri Mario Venditti ed Alberto Nobili e del gip Guido Salvini, il 7 e l’11 giugno del 2007, e sono contenuti nella richiesta di rinvio a giudizio. Anche per le parole di Sanese, la procura di Milano ha aperto un’inchiesta su un’altra intricata vicenda, quella della truffa da almeno 40 milioni di euro che Cottone avrebbe realizzato ai danni di Paolo Berlusconi. Un capitolo oscuro di cui ci occuperemo nei prossimi giorni.

Il racconto

Ecco cosa dice Sanese ai magistrati. «Ho conosciuto Giovanni Cottone tramite Giovan Battista Rosano, che era compare, amico intimo di mio nonno. Rosano, che nella zona in cui abita a Palermo, che noi chiamiamo Borgo Nuovo, è molto rispettato, a Milano è molto amico dei Taormina, dei Carollo, dei Fidanzati (tutti clan mafiosi ndr). Una volta ha ucciso un uomo a coltellate... Rosano era il garante delle cavolate che il Cottone combinava. L’altro garante era lo zio del Cottone, Antonio, che lo ha cresciuto ed educato. I due, Rosano e Antonio Cottone, erano compari dello stesso gruppo mafioso. Perché ce l’avevano con Giovanni Cottone? Per diversi motivi. Il fatto più grave è quello del 1995. Giovanni Cottone era stato sequestrato dai catanesi perché aveva fatto un buco da 400 milioni. I catanesi poi gli hanno spaccato mani, mascelle e lui si è rivolto per salvarsi a Giovanni Rosano, lo zio Giovanni come lo chiamava lui, che è accorso con lo zio Antonio. Gli hanno salvato la vita, gli hanno evitato legnate, come raccontano loro, ma hanno dato 200 milioni in contanti ai catanesi. E Giovanni Cottone non li ha mai restituiti. «Qual era il mio ruolo a Milano?». Continua Sanese: «Facevo una finta sicurezza per Giovanni Cottone, perché poi l’interesse era portare capitali all’estero. Ogni settimana, ogni quindici giorni, portavo delle valigette con dei soldi all’Ubs, dove mi aspettava una persona e depositavo questi soldi (anche un miliardo di vecchie lire alla volta) e rientravo poi a Milano. Erano valigette Samsonite nere, con combinazione. Il compenso per questo lavoro era di un milione di vecchie lire. L’ho fatto per una decina di volte». Al «Mangia & Ridi» «Formalmente lavoravo presso il suo locale, che era il “Mangia & Ridi”. I soci del “Mangia & Ridi” erano Paolo Berlusconi, Giovanni Cottone e Roberto Guarneri. Già in quel periodo era in società con Paolo Berlusconi, stavano assieme ventiquattro ore al giorno. Infatti Katia Noventa, che era l’ex di Paolo Berlusconi, e la signora Casale, erano sempre insieme, cenavano e mangiavano sempre insieme. Se Berlusconi sapeva delle attività del Cottone? Quando ne parlavano a tavola, ne parlavano tranquillamente... Dicevo del “Mangia & Ridi”. In quel periodo nel locale andava tantissimo tirare di cocaina, lo facevano tutti. Cottone all’epoca mi ha presentato uno spacciatore di Opera, io andavo a prendere la coca davanti al carcere di Opera, i soldi me li dava lo stesso Cottone. Io mi preoccupavo di prepararla e dividerla e la davo a Claudio, l’ex direttore del “Mangia & ridi”. I camerieri servivano la coca a tavola ai vari artisti che venivano, vari vip che venivano, i soldi poi venivano contati da me e Claudio e divisi al 50% col Cottone. Siamo riusciti a prendere anche venti milioni delle vecchie lire in una sera» «Se Cottone faceva parte della malavita? Faceva parte della malavita, veniva anche il figlio di Nitto Santapaola (capo della mafia catanese negli anni ottanta ndr) a cena con noi, mi sono trovato a cena con i Vernengo (potente clan mafioso palermitano ndr). Sempre al “Mangia & Ridi”, nel ‘98, ‘99. Queste cose le so perché ero sempre accanto al Cottone. Lui fa comodo per pulire tanti soldi, questo è sicuro. In ristoranti, alberghi, comprare immobili...queste cose qua. Investiva soldi di altri che provenivano sicuramente da proventi illeciti... Con Paolo Berlusconi hanno realizzato anni fa una società in Germania, mi ricordo perché in quel periodo parlavano sempre con Paolo di questa cosa grossa che stavano facendo in Germania» «Come nasce la fortuna economica del Cottone? Come lui vanta, dallo spaccio di soldi falsi nei paesi del Nord Africa e poi da una mega truffa di gioielli e da una ricettazione grossa di rapine di gioielli, anche in via Montenapoleone. I gioielli li ho visti io, tanto oro l’ho portato in Svizzera. E poi tanta elettronica rubata, ricettazione di elettronica. I furgoni li scaricavo io».

La misteriosa truffa a Paolo Berlusconi

LA SOLARI.COM, i decoder e il suo «buco», quei 40 milioni di euro «soffiati» al fratello del leader di Forza Italia ma di cui proprio lui nega l’esistenza. Il rebus del rapimento al suo socio. E il sequestratore che dice: «Del raggiro subìto Berlusconi sapeva tutto, ho sentito una telefonata» C’ è un capitolo misterioso nel rapporto d’affari tra Giovanni Cottone e Paolo Berlusconi. È quello che vuole chiarire l’inchiesta aperta dal pubblico ministero Mario Venditti per truffa ai danni di Paolo Berlusconi e che vede come indagato proprio il suo ex socio Giovanni Cottone. L’inchiesta ha preso il via per quanto emerso dalle intercettazioni ambientali che hanno portato all’arresto del gruppo che voleva rapire Cottone e soprattutto per quanto dichiarato da Giuseppe Sanese nei due interrogatori del 7 e dell’11 giugno del 2007. Il dato particolare di questa vicenda è che Paolo Berlusconi ha sempre negato di essere al corrente della truffa, nonostante sia Sanese nel suo interrogatorio, sia Giuseppina Casale (moglie di Cottone e mente del sequestro) in un intercettazione ambientale dicano il contrario. Eppure in ballo ci sono almeno 40 milioni di euro, una bella cifra. Soprattutto se si tiene conto che la Pbf, la cassaforte del fratello del leader del Pdl, aveva mandato in archivio il bilancio 2006 con un buco di 37 milioni, aperto non solo dalle difficoltà de Il Giornale (che aveva salvato l´esercizio cedendo la sede alla Fininvest) ma soprattutto dai 63 milioni bruciati dalla Solari.com. Le perdite della controllata nell´elettronica di consumo avevano messo in allarme il collegio sindacale, tanto da chiedere un intervento di ricapitalizzazione al socio di controllo. La situazione dei conti della Pdf ha reso poi necessario l’intervento dell’avvocato Roberto Poli, oggi presidente dell’Eni, già protagonista in altre occasioni come consulente a fianco delle società del gruppo Berlusconi. L’avvocato Ghedini, legale di Paolo Berlusconi, contattato dall’Unità lunedì scorso, ha dichiarato che «dai conti della Solari.com non risulta niente di anomalo. Aspettiamo notizie dalla procura». Anche l’avvocato di Giovanni Cottone, Jacopo Pensa, ha spiegato al nostro giornale che «si tratta di un buco dovuto a normali perdite di una società in difficoltà. Non c’è stata nessuna truffa da parte del mio cliente». Ma come detto, i protagonisti del mancato rapimento affermano che Paolo Berlusconi fosse perfettamente a conoscenza del fatto, tanto che l’obbiettivo del gruppo criminale era proprio quello di impadronirsi della cifra truffata. Giuseppina Casale (definita dal Gico di Palermo in ottimi rapporti con i salotti della Milano “bene” e con la malavita palermitana) in un intercettazione ambientale con lo zio di Cottone, Antonio, racconta di una sua telefonata con Paolo Berlusconi. I due, come racconta Sanese, erano in ottimi e datati rapporti. Ecco il testo della telefonata della Casale iscritta negli atti di richiesta di rinvio a giudizio: «Perché (Cottone) viene a Palermo, inizia a fare “io mi compro tutta Palermo con i miei soldi...ha rubato...ha rubato a Paolo settantacinque milioni di euro e Paolo l’unica cosa che mi ha detto, mi ha chiamato mi fa: “Accetto che tu fai la separazione, appena che tu fai la separazione io a questo lo metto in mezzo alla strada». Sanese racconta più dettagliatamente come Berlusconi fosse a conoscenza della truffa e spiega come sarebbe avvenuta. Cottone e la Casale nel periodo precedente al fallito sequestro si erano a lungo frequentati. Ecco il testo, anch’esso contenuto negli atti di rinvio a giudizio: «Perché tutti sanno di questa nota truffa che (Cottone) ha fatto a Paolo Berlusconi di 40 milioni di euro, almeno 40 milioni di euro che sono venuti a mancare a Paolo Berlusconi...dice: “come l’ha fatta?”. Io sentivo parlare a casa, che c’erano innanzitutto i pezzi dentro l’Amstrad, ha fatto una serie di di forniture di elettrodomestici dell’Amstrad (la marca dei decoder ndr), tutta con roba fasulla dentro e anziché mettere il materiale originale...e poi usava il meccanismo dei container...lo stesso che faceva con me in Svizzera. Cioè faceva entrare tre container, ne dichiarava due e uno lo vendeva. Ed ha fatto questa mega truffa, ha fatto questo buco a Paolo di almeno 40 milioni. Io poi ho visto una registrazione che aveva sul telefonino la Casale, che mi ha fatto ascoltare l’ultima telefonata che aveva fatto con Paolo Berlusconi, dove Paolo diceva: “Senti, senti tu continua così...” e che Paolo alla fine, dopo tutto lo sdegno, diceva “lo voglio vedere ridotto...ha tradito la mia amicizia ventennale” e non mi ricordo le parole di preciso, ma mi ricordo benissimo che lo voleva ridotto sul ciglio della strada a chiedere l’elemosina. Io la voce di Paolo Berlusconi la conosco bene, ci ho parlato tantissime volte. Se voleva fare un’azione legale? L’azione che voleva fare Paolo non lo so, la Casale mi ha raccontato ma io non ero presente quindi...i rapporti tra la Casale e Paolo Berlusconi? Ottimi rapporti, erano entrambi contro Cottone, tanto che la Casale ha detto a Paolo Berlusconi, dice: “Se dovessi fare qualcosa a mio marito, aspetta che prima avvenga la separazione”. Perché la Casale inizialmente voleva procedere per via legale».

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Riepilogo:

- Silvio Berlusconi dal 1974 al 1976 ospita nella villa di Arcore il noto mafioso, Vittorio Mangano, intimo del suo segretario Marcello Dell’Utri, già oggetto di denunce e arresti. Due arresti, effettuati proprio in casa del premier;

- Primi anni ’80 il nome di Berlusconi viene fuori durante l’indagine denominata “Pizza Connection”;

- Nell’83 la Banca Rasini, che insieme al suo fondatore, Carlo Rasini, furono i primi finanziatori di Silvio Berlusconi, assurge agli onori della cronaca a seguito di un’inchiesta sul il riciclaggio dei soldi della criminalità organizzata e si scopre così che gli esponenti di “Cosa Nostra” (Riina, Provenzano, Calò, Mangano), avevano lì i loro conti correnti;



- Sempre nel 1983, la Guardia di Finanza, nell’ambito di un’inchiesta sul traffico di droga, mette sotto controllo i telefoni di Berlusconi (non c’era né il lodo Alfano, né altri decreti “ammazza intercettazioni”) e in una relazione scrive che “ il noto Silvio Berlusconi finanzierebbe un intenso traffico di stupefacenti dalla Sicilia, sia in Francia che in altre regioni italiane. Il predetto sarebbe al centro di grosse speculazioni edilizie e opererebbe sulla Costa Smeralda avvalendosi di società di comodo..”;

- Nel ’91 a Lugano, fallì una grossa operazione di riciclaggio di denaro e la procura federale, il comando di polizia e la procura ticinesi , fecero infiltrare nell’organizzazione il commissario di polizia ticinese Fausto Cattaneo, il quale nella sua relazione scrisse del coinvolgimento della Fininvest in grosse operazioni di riciclaggio;

- Il Giudice Falcone, prima di essere ucciso, indagava già sulle Banche luganesi e sui loro rapporti con i boss mafiosi;

- Paolo Berlusconi, gestiva in società un ristorante, all’interno del quale l’attività prevalente era lo spaccio di sostanze stupefacenti, e che annoverava clienti di spicco, come il figlio del boss Nitto Santapaola;

- L’uomo che organizzò il riciclaggio dei narcodollari dell’operazione “Pizza Connection”, è lo stesso citato per riciclaggio nelle relazioni dell’operazione “Montecristo”, che vede coinvolto il primo ministro del Montenegro, paese che, avendo chiesto di poter entrare a far parte dell’Unione Europea, ha in Berlusconi l’unico sponsor;

- Berlusconi si avvale della facoltà di non rispondere ai giudici dell’antimafia, che chiedono di sapere la provenienza dell’equivalente di 300milioni di euro, arrivati da parte di un misterioso donatore alle finanziarie Fininvest, tra il 1975 e il 1983.

Conclusioni:

- Berlusconi è vittima della malasorte e tutti quelli che lo circondano sono mafiosi, narcotrafficanti e uomini dediti al riciclaggio, solo per un fortuito caso;

- I soldi (equivalenti a 300mln di euro), furono donati a Fininvest da qualcuno che ritenne la società un’opera pia dedita alla beneficenza. Le date, che forse destarono tanti sospetti, furono in verità un’altra disgraziata coincidenza;

- Forse neppure Riina, Provenzano, Santapaola, Calò e Mangano, sono o erano mafiosi ed essendo viceversa uomini misericordiosi e timorati di Dio, sono stati vittime del male e di un complotto ordito in loro danno.

In un contesto di questo genere, ha ancora un senso svolgere delle indagini e coinvolgere il povero signor Berlusconi, colpito da tanta sfortuna, in inchieste banali quali quella sulle escort e sul consumo di modeste quantità di cocaina?

Evidentemente, di tanta sfortuna, si è resa conto pure l’opposizione, che non ha mai utilizzato questi argomenti.

Solo Bossi, senza riguardo alcuno e senza pietà per un pover’uomo tanto sfortunato, aveva commissionato un’indagine investigativa, salvo poi essendosi resosi conto dell’incredibile casualità, da attribuire tutta alla sfortuna, che legava Berlusconi a simili loschi traffici, tornare a essere il suo più fedele alleato.



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Fonte: http://www.lavalledeitempli.net/libera-informazione/silvio-berlusconi-un-uomo-tanto-sfortunato

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Tra mafia e Stato: “Caro Silvio, se parlo io…”
Brusca rivela: Riina disse che il nostro referente nella trattativa era il ministro Mancino.
Ma dopo l'arresto del padrino, i boss puntarono su Forza Italia e Silvio Berlusconi.

lunedì 27 luglio 2009

LA LEGALITA' CONTRO IL RAZZISMO

LA LEGALITA' CONTRO IL RAZZISMO
Supplemento straordinario de "La nonviolenza e' in cammino" del 25 luglio 2009
Centro di ricerca per la pace nbawac@tin.it / nonviolenza@peacelink.it
-Peppe Sini: Agli atti illegali ed eversivi di un governo golpista e' dovere di ogni cittadino resistere.
Le misure razziste e squadriste palesemente incostituzionali non hanno e non possono avere valore di legge,
esse sono un crimine ed i loro autori vanno processati per aver tentato un colpo di stato:
nessuna persona e nessuna istituzione ne sia complice. -

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Valerio Onida: Criminalizzare e' inutile. Carlo Federico Grosso: Una svolta che non aiuta la giustizia. Enzo Bianchi: Quando un forestiero bussa alla porta. Giovanna Zincone: Se la sicurezza e' sbilanciata. Vladimiro Polchi intervista Mario Marazziti. "La Stampa": Il Commissario dell'Unione Europea Barrot denuncia le illegali deportazioni.

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SIAMO UNA SOLA UMANITA'
VALERIO ONIDA: CRIMINALIZZARE E' INUTILE
[Dal quotidiano "Il sole 24 ore" del 4 luglio 2009 col titolo
"Criminalizzare? E' inutile". Valerio Onida e' Presidente emerito della Corte Costituzionale]

Pacchetto sicurezza: gia' il nome esprime il messaggio che la maggioranza ha voluto mandare agli elettori.
Si e' detto che cosi' si combatte con nuove misure la mafia, che si contrasta l'immigrazione clandestina, che si tutela
meglio la sicurezza urbana. Ma sotto il vestito del trasparente messaggio, cosa c'e' di reale?
Lasciamo da parte le misure contro la criminalita' organizzata, anche se e' lecito il sospetto che siano state volute piu' che altro per non far apparire tutto il "pacchetto" come pensato solo contro l'immigrazione e la piccola delinquenza e anche se e' lecito il dubbio, per esempio, che per combattere piu' efficacemente la mafia serva "indurire" ulteriormente il regime del "41 bis" nei confronti dei condannati e degli imputati per mafia che stanno in carcere, anziche' trasformare le condizioni ambientali in cui
la mafia in liberta' riesce ancora a condizionare pesantemente la societa'.
La "sicurezza urbana" e' poco piu' di uno slogan, se e' affidata al discutibile strumento delle ronde di "volontari" e non al reale potenziamento in mezzi e risorse delle forze dell'ordine e piu' in generale delle strutture di prevenzione e di intervento sociale: la sicurezza e' un bene che si difende soprattutto prevenendo, prima che reprimendo.
Ma dove il "pacchetto" risulta particolarmente criticabile e' riguardo all'immigrazione.
Combattere l'immigrazione illegale con la criminalizzazione dei sans papiers e con la sottrazione di diritti elementari e' doppiamente incongruo. In primo luogo perche' l'immigrazione (anche illegale) non e' un fenomeno di tipo delinquenziale (come potrebbe essere il lucroso traffico di droga, o la tratta delle donne o dei minori), ma e' il frutto di correnti e spinte
profonde che si manifestano nel mondo globalizzato, nonche' espressione della "liberta' di emigrare" che l'articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani proclama per "ogni individuo". In secondo luogo perche', sovente, essa e' il frutto della disperazione di chi fugge da aree in cui gli e' impedito "l'effettivo esercizio delle liberta' democratiche garantite dalla Costituzione italiana", e invoca percio' il diritto di asilo che l'articolo 10 della stessa Costituzione gli assicura: al richiedente
asilo non si puo', legalmente e civilmente, opporre la semplice mancanza di titoli legali di soggiorno (ne' respingerlo a mare o su coste inospitali dal punto di vista dei diritti). Occorrerebbe, piu' in generale, disciplinare meglio e favorire l'immigrazione legale, anche quella dei migranti "economici", favorendo la ricerca del lavoro e dell'alloggio, consentendo largamente il
ricongiungimento con i familiari (il migrante solo e' sicuramente piu' esposto al rischio delinquenza del migrante inserito nel paese con la sua famiglia), attuando seri programmi di integrazione, favorendo l'acquisto della cittadinanza. Invece noi siamo ancora alle prese con i "flussi" delle quote di qualche anno fa; le procedure per il rinnovo dei permessi di soggiorno (non parliamo di quelle per la richiesta della cittadinanza) sono straordinariamente lunghe; abbiamo da poco ristretto, e non allargato, le possibilita' di ricongiungimento familiare; le risorse per i servizi sociali (suscettibili anche di creare integrazione) sono ridotte e non aumentate; di fronte alla difficolta', se non impossibilita', di attuare le espulsioni non troviamo di meglio che creare un nuovo reato, prolungare nel tempo la para-carcerazione nei centri ribattezzati "di identificazione ed espulsione", o ricorrere all'arresto e alla carcerazione vera (e inutile) di coloro che si sottraggono all'ordine di allontanamento.
Alessandro Manzoni ci racconta delle "gride" con cui il governatore della Milano spagnola intimava ai "bravi e vagabondi", di "sgomberare il paese", minacciando "la galera ai renitenti"; e l'anno dopo, constatato che la citta' ne era tuttora piena, ordinava che chiunque constasse esser "riputato per bravo" e "aver tal nome", ancorche' "non si verifichi aver fatto delitto
alcuno", fosse "mandato alla galea" per un triennio, "per la sola opinione e nome di bravo". Si sa quanto servivano questi provvedimenti. Ma fino a quando la nostra "civile" societa' italiana continuera' a chiedere alla politica di emanare sempre nuove gride, anziche' chiedere di affrontare con razionalita' i problemi reali nelle loro radici effettive, e con i mezzi
adeguati?

CARLO FEDERICO GROSSO: UNA SVOLTA CHE NON AIUTA LA GIUSTIZIA
[Dal quotidiano "La Stampa" del 3 luglio 2009 col titolo "Una svolta che non aiuta la giustizia".

Carlo Federico Grosso, giurista e docenteuniversitario, e' stato membro del Consiglio superiore della magistratura]
Con tre voti di fiducia, in meno di ventiquattr'ore, l'esecutivo ha conquistato il si' definitivo al disegno di legge sicurezza.
Un nuovo successo per la maggioranza, una nuova sconfitta per l'opposizione.
Ancora una volta, ponendo la fiducia, il governo ha soffocato ogni dialettica parlamentare.
Nonostante le critiche avanzate da ambienti qualificati del mondo del diritto e dalla Chiesa, e' stato mantenuto il reato di clandestinita'. Lo straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni vigenti e' punito con l'ammenda da 5.000 a 10.000 euro. Rispetto alla versione originaria e' scomparsa la pena detentiva (che avrebbe prodotto un ulteriore, insopportabile, intasamento delle carceri). E' stata mantenuta tuttavia la reita' del fatto. Anzi, se
c'e' flagranza, od evidenza del reato, e' previsto il rito direttissimo davanti al giudice di pace. Immagino che numerosi lettori applaudiranno la nuova norma, ritenendo che essa costituisca un esempio di reazione forte dello Stato all'ingresso
clandestino in Italia di stranieri delinquenti. In realta' il nuovo reato appare, ai tecnici del diritto, piu' che altro un "manifesto" privo di logica ed utilita', se non, addirittura, una novita' foriera di danni per l’esercizio della giustizia.

Iniziamo da quest'ultimo profilo. La giustizia italiana e', gia' oggi, travolta da mille incombenze. L'effetto immediato della nuova disciplina rischiera' di essere uno tsunami giudiziario di migliaia di nuove iscrizioni e di nuovi processi. Chi sara', concretamente, in grado di gestire la tempesta? Si dira': il giudice di pace, senza che la normale giustizia penale trattata dai magistrati togati sia sfiorata. Nessuno pensa tuttavia che, prima di arrivare davanti al giudice di pace, a gestire la situazione si troveranno le Procure, che dovranno, bene o male, iscrivere i reati, generalizzare gli indagati, e, se del caso, esercitare
l'azione penale? Delle due, pertanto, l'una: o esse saranno travolte, e pertanto impedite nello svolgere la loro stessa, usuale, attività d'indagine nei confronti dei reati dei quali gia' oggi si occupano, ovvero faranno finta. Iscriveranno formalmente i nuovi reati di clandestinita' (e gia' questa sara' un’incombenza pesante), e poi terranno le pratiche nel cassetto. In entrambi i casi, com'e' ovvio, qualcosa non funzionerebbe.
Ma passiamo alla logica. Quale puo' essere la giustificazione della previsione di un "reato" di clandestinita'? Il clandestino, se scoperto, deve essere ovviamente espulso dallo Stato, questo e' l'obbiettivo primario. Ed infatti anche la nuova legge prevede che lo straniero nei cui confronti si e' aperto processo penale per clandestinita', o nei cui confronti c'e' stata condanna penale, dovra' essere cacciato dal territorio nazionale. Anzi, se sara' espulso prima della condanna, il giudice dovra' dichiarare il
non luogo a procedere. Ma allora, per raggiungere tale obbiettivo, non sarebbe stato piu' ragionevole prevedere, semplicemente, lo snellimento delle pratiche amministrative di espulsione, senza scomodare la giustizia penale con la sua
chiamata alle armi contro un reato comunque bagatellare? La nuova incriminazione costituisce pertanto, con evidenza, appunto un semplice "manifesto", non e' una norma rispettosa dei principi che dovrebbero, ragionevolmente, sorreggere l'attivita' di un legislatore scrupoloso. Ne' si potrà sostenere, per giustificare la novita', che il migrante irregolare e', per definizione, pericoloso: la Corte Costituzionale ha, infatti, gia' escluso che lo stato d'irregolarita' possa essere considerato,
di per se', sintomo presuntivo di pericolosita' sociale (sentenza n. 78/2007). E si badi che la Corte, trattando d'immigrazione, in un'altra occasione aveva affermato, con altrettanta chiarezza, che il legislatore deve "orientare la sua azione a canoni di razionalita'" (sentenza n. 5/2004), bollando pertanto come incostituzionale ogni disciplina irragionevole della materia. che dire, a questo punto, delle ulteriori disposizioni approvate ieri col decreto sicurezza? In questa sede non e' possibile una loro analisi
dettagliata. Mi limitero' pertanto ad accennare che alcune di esse sono sicuramente apprezzabili, come quelle che prevedono giri di vite in materia di criminalita' organizzata od escludono dalle gare di appalto le vittime di estorsione che non denuncino la violenza subita. Che altre suscitano invece grandi perplessita', come quella, soprattutto, che istituisce le ronde cittadine, attribuendo a privati cio' che dovrebbe essere attivita' riservata ai pubblici poteri. Il "segno distintivo" della nuova legge e' comunque, senza dubbio, il reato di immigrazione clandestina. Ed e' su tale profilo che deve essere,pertanto, misurato il livello di civilta', o di incivilta', del "legislatore nuovo" che si accinge, in un modo o nell'altro, a trasformare lo Stato italiano e la sua immagine.

ENZO BIANCHI: QUANDO UN FORESTIERO BUSSA ALLA PORTA
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 12 luglio 2009 col titolo "Quando un forestiero bussa alla porta"]

"Ero straniero e mi avete ospitato", oppure no? E' questo l'interrogativo che non cessa di risuonare da quando l'evangelista Matteo l'ha posto in bocca a Gesu' nella sua descrizione del giudizio finale, descrizione che non mira tanto a raccontare quanto accadra' alla fine dei tempi, ma piuttosto a plasmare l'atteggiamento quotidiano dei discepoli e a fornire loro un criterio di giudizio sul proprio e l'altrui comportamento. Del resto, fin dall'Antico Testamento, la categoria dello straniero era quella che meglio raffigurava il bisognoso: lontano dalla propria casa, lingua e cultura, privo dei diritti legati all'appartenenza a un popolo, sovente lo straniero finiva per cadere ben presto nelle altre situazioni di emarginazione e sofferenza: malato, carcerato, affamato..., condizioni non a caso citate anch'esse da Gesu' nel suo racconto sul giudizio. Nella tradizione veterotestamentaria la cura e il rispetto per lo straniero si fondavano su una memoria esistenziale prima ancora che storica: l'invito "amate il forestiero perche' anche voi foste forestieri nel paese d'Egitto" (Deuteronomio 10, 19) risuona pressante e attuale anche per generazioni ormai da tempo insediate nella terra promessa. A questa consapevolezza si aggiunge nei Vangeli l'inattesa identificazione di Gesu' con lo straniero che attende accoglienza e che incontra rifiuto: cio' che si fa o non si fa al "piu' piccolo", al piu' indifeso, e' dono elargito o negato a Gesu', come se egli fosse presente e recettivo ogni giorno al nostro agire.
In questo senso un dato complementare emerge con forza dalle pagine del Nuovo Testamento: Gesu' stesso, il Gesu' storico che ha abitato tra gli uomini come uno di loro, e' percepito e narrato come uno straniero, in quanto ha vissuto "altrimenti", manifestandosi come "altro" agli occhi di chi lo ha incontrato e ne ha poi raccontato l'esistenza. Dall'infanzia come
profugo in Egitto alla sua provenienza dalla Galilea, tutto lo rendeva marginale nell'ambito di Gerusalemme, cuore culturale e religioso di Israele: "Il Cristo viene forse dalla Galilea? [...] Non sorge profeta dalla Galilea!" (Giovanni 7, 41.52). Inoltre, il suo essere dotato di un'autorita' carismatica fuori dell'ordinario suscitava una dura opposizione sia da parte dei sacerdoti che governavano il Tempio, i quali lo consideravano pericoloso, sia da parte dei maestri della Legge, invidiosi della sua conoscenza della Scrittura. Gesu', con la sua missione e la sua esperienza di estraniamento che lo accomuna ai profeti, assume il volto dell'"altro": altro rispetto alle attese del suo maestro Giovanni Battista, altro rispetto alla famiglia che
lo giudica "fuori di se'" e vorrebbe riportarlo a casa con la forza, altro rispetto alla sua comunita' religiosa che lo considera "indemoniato" (cf. Marco 3, 21 e 22). Egli e' altro anche rispetto ai suoi concittadini di Nazaret: e' significativo che proprio la' dove dovrebbe attivarsi il meccanismo del riconoscimento e dell'accoglienza, nella sua patria, avviene il rifiuto, e Gesu' diviene estraneo, fino ad essere nemico. L'incomprensione di questa alterità conoscera' il suo culmine quando il Figlio sara' "ucciso dai vignaioli" - quelli a cui era stato inviato - "e gettato fuori della vigna"! Paradigmatica e' la presentazione di Gesu' quale straniero fatta da Luca nell'episodio dei discepoli di Emmaus (cf. Luca 24, 13-35): il Risorto, con i tratti di un viandante, si accosta a due discepoli e cammina con loro, mentre essi parlano con tristezza della morte del profeta Gesu' di Nazaret.
Alla sua domanda sull'oggetto del loro discorrere, ribattono: "Tu solo sei cosi' forestiero da non sapere cio' che e' accaduto in questi giorni?": egli e' lo straniero che cammina con gli uomini, che resta nascosto fino a quando, invitato a tavola, viene riconosciuto nel gesto di condividere il pane. Si', nella condivisione del pane, nello stare a tavola insieme, nel conversare, nel fare memoria di cio' che si e' vissuto, avviene il riconoscimento e lo straniero si rivela. Forse possiamo allora cogliere meglio tutta la pregnanza di un ammonimento come quello che Gesu' rivolge ai suoi discepoli: se egli puo' identificarsi con lo straniero fino a considerare come rivolta a se stesso ogni cura prestata - e ogni offesa arrecata - a uno straniero nel bisogno e' perche' ha voluto vivere nella carne l'esperienza di estraneita', il venire in mezzo ai suoi e non essere riconosciuto, il vedersi negata quella dignita' fondamentale di ogni essere umano. Perche', come ha ben ricordato papa Benedetto XVI nell'enciclica Caritas in veritate, "ogni migrante e' una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione". Di questo rispetto la coscienza ci chiede conto qui e ora, di questo rispetto un
giorno verra' chiesto conto a ciascuno.

GIOVANNA ZINCONE: SE LA SICUREZZA E' SBILANCIATA
[Dal quotidiano "La Stampa" del 7 luglio 2009 col titolo "Se la sicurezza e' sbilanciata"]

Dichiarazioni forti e chiare di eminenti personalita' politiche sono spesso seguite da fulminee smentite. Ci siamo abituati, ma questo comincia a capitare anche alle leggi. Forse perche' sempre piu' spesso vogliono essere soprattutto dichiarazioni forti e chiare, poco consapevoli delle loro conseguenze sulla vita reale. La legge sulla sicurezza costituisce un eccellente esempio di questo stile. Vediamo perche'. Dopo aver presentato il reato di immigrazione clandestina come una terapia d'urto ad ampio raggio, ora si sostiene che la misura non riguarda chi gia' risiede in Italia, non - ad esempio - le sempre benedette badanti. Ma non e' cosi'. Il testo della legge include tra i nuovi rei non solo gli immigrati che passeranno la frontiera di straforo in futuro, ma anche tutti coloro che sono oggi in Italia privi di un permesso valido, quindi anche i clandestini di ieri e anche gli stranieri entrati legalmente il cui permesso e' scaduto. La legge ha volutamente incluso tutti i presenti. Infatti, mentre in una prima versione si riferiva solo a "chi fa ingresso", si e' poi aggiunto "ovvero si trattiene", proseguendo poi sempre con "in violazione delle disposizioni del presente testo unico". Ne deriva che tutti gli immigrati oggi irregolari possono essere puniti se non se ne vanno. E in base al codice penale (articoli 361 e 362), il fatto che l'irregolarita' del soggiorno sia divenuto reato obbliga alla denuncia non solo i pubblici ufficiali (quindi le forze dell'ordine), ma anche gli incaricati di pubblico servizio (quindi conducenti di autobus, postini, bidelli). Se non lo fanno rischiano severe sanzioni. E, se e' pur vero che la scuola dell'obbligo e'
stata indicata tra i servizi pubblici a cui si puo' accedere senza dimostrare la regolarita' del soggiorno, tuttavia - a differenza di quanto accade per le strutture sanitarie - non e' stato introdotto un esplicito divieto di denuncia, quindi i temuti presidi-spia di piccoli scolari potrebbero essere ancora li', e con loro molti altri delatori per obbligo, in quanto operatori nei servizi pubblici.
Certo non e' detto che costoro si prestino a fare denuncia. Fino ad ora persino le forze dell'ordine hanno spesso chiuso un occhio quando pescavano irregolari socialmente innocui. In teoria potrebbero continuare, ma ora sono a rischio di trovare un solerte collega che li denuncia. Comunque, se le forze dell'ordine dovessero mostrarsi tenere, ad attivarle ci penserebbero
le ronde? Il coordinatore delle ronde leghiste Max Bastoni ha affermato: "vogliamo fare le cose in regola, le pagliacciate le lasciamo ai balilla". Tuttavia alcuni ricordano il suo slogan "Bastoni contro gli immigrati". L'eurodeputato Borghezio si e' detto fiero del reclutamento nelle ronde che va bene al di la' dei suoi Volontari verdi. Dello stesso onorevole circola un video in cui invita militanti di estrema destra francesi a seguire il suo esempio: a camuffarsi da regionalisti e federalisti per entrare nelle
istituzioni, mantenendo pero' intatto il proprio credo. Di tali marginali defaillance dei promotori delle ronde pochi sembrano curarsi. Date tutte queste controindicazioni, si puo' prospettare una subitanea riforma della riforma? Pare difficile che questo accada ad una legge simbolo appena approvata sotto il maglio del voto di fiducia. E' piu' probabile che in tempi brevi per tamponare il caso badanti si segua la pudica soluzione di un super-decreto flussi invece della regolarizzazione proposta da
Giovanardi? Vedremo. Ancora una volta nell'immigrazione irregolare si evidenzia un nodo pesante e difficile da sciogliere: da una parte, va combattuta perche' rompe le regole, perche' puo' nascondere devianza e delinquenza; dall'altra, e' difficile reprimerla indiscriminatamente senza pagare alti costi economici ed umani. Ma in politica i nodi difficili e' bene non tagliarli con l'accetta. Qualcuno nella maggioranza l'ha capito.

VLADIMIRO POLCHI INTERVISTA MARIO MARAZZITI
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 5 luglio 2009 col titolo "Marazziti,
della comunita' di S. Egidio: Con il nuovo reato ogni migrante e' trattato come un 'nemico'"]

"C'e' purtroppo un'Italia che sta cambiando. Col reato di clandestinita' si lancia il messaggio che ogni immigrato e' un potenziale nemico". L'aggressione razzista a Roma contro un cittadino congolese preoccupa la comunita' di Sant'Egidio. "Francamente - afferma Mario Marazziti - avvertiamo un clima da tutti contro tutti, che la legge sulla sicurezza non
aiuta certo a svelenire".

*
- Vladimiro Polchi:
Negli ultimi mesi si assiste a un'escalation diaggressioni a sfondo razziale. Cosa sta succedendo?

- Mario Marazziti:
Il nostro Paese sta cambiando. Il consenso, non generalizzato ma esistente, di una parte degli italiani verso la nuova legge
in materia di sicurezza e' in parte il risultato di una cultura del disprezzo che in tempo di crisi sembra orientare sugli immigrati ogni paura e disagio.

*
- Vladimiro Polchi:
La nuova legge rischierebbe di assecondare una tendenza alla criminalizzazione del lavoratore straniero?

- Mario Marazziti:
Le leggi contengono sempre un messaggio culturale. E il messaggio che si da' quando si crea il reato di clandestinita', prescindendo dalle azioni concretamente compiute e criminalizzando la semplice presenza in Italia, e' che ogni immigrato e' un possibile pericolo. Rischiamo cosi' di far nascere il reato di speranza.

*
- Vladimiro Polchi:
Si spieghi meglio.

- Mario Marazziti:
Chi spera in una vita migliore e ne accetta i rischi, viene criminalizzato e trattato come un nemico, invece che come una risorsa.

*
- Vladimiro Polchi:
Condivide dunque le preoccupazioni di monsignore Agostino Marchetto?

- Mario Marazziti:
Verso la nuova legge sulla sicurezza c'e' preoccupazione in ampi settori della societa' italiana, non solo cattolica. Oltretutto temo che questo diventi un boomerang per gli interessi economici nazionali.

"LA STAMPA": IL COMMISSARIO DELL'UNIONE EUROPEA
BARROT DENUNCIA LE ILLEGALI DEPORTAZIONI
[Dal quotidiano "La Stampa" del 23 luglio 2009 col titolo "Barrot: Italia chiarisca sui respingimenti"]
Jacques Barrot scrive ancora.
Dopo avere chiesto all'Italia nuove informazioni sui respingimenti dei clandestini nel canale di Sicilia, il Commissario Ue per gli affari giudiziari ha inviato una lettera all'Europarlamento per reiterare le perplessita' sulla legittimita' dell'azione.
Nel testo, indirizzato al presidente della Commissione Liberta' pubbliche Lopez Aguilar, il francese ribadisce il principio del "non refoulement", secondo cui "gli stati devono astenersi dal rinviare una persona laddove essa potrebbe correre un rischio reale di essere sottomesso a tortura, o a trattamenti disumani e degradanti".



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Corte Costituzionale SENTENZA N. 78 ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:

- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE
- Ugo DE SIERVO
- Romano VACCARELLA
- Paolo MADDALENA
- Alfio FINOCCHIARO
- Alfonso QUARANTA
- Franco GALLO
- Luigi MAZZELLA
- Gaetano SILVESTRI
- Sabino CASSESE
- Maria Rita SAULLE
- Giuseppe TESAURO
- Paolo Maria NAPOLITANO

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nonché degli artt. 5, 5-bis, 9, 13 e 22 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), promosso con ordinanza del 24 maggio 2005 dal Tribunale di sorveglianza di Cagliari nel procedimento relativo a R. E. O., iscritta al n. 545 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2005.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2007 il Giudice relatore Maria Rita Saulle.

Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale di sorveglianza di Cagliari, con l’ordinanza in epigrafe specificata, ha sollevato, in riferimento all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nonché degli artt. 5, 5-bis, 9, 13 e 22 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo).
In punto di fatto, il rimettente osserva che, dopo aver concesso a R. E. O, condannato per il reato di cui agli artt. 73 e 80, comma 2, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, la Corte di cassazione ha annullato con rinvio il suddetto provvedimento sul presupposto che il detenuto, cittadino extracomunitario, era illegalmente presente sul territorio nazionale.
In particolare, la Corte di cassazione, in accoglimento del ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Cagliari, ha ritenuto che la concedibilità delle misure alternative alla detenzione è subordinata – oltre che all’esistenza delle condizioni per ciascuna di esse specificamente previste – al rispetto del limite di legalità estrinseca dell’ordinanza che concede il beneficio, costituito dall’assenza di contrasto con norme imperative. Da ciò consegue che, essendo contra legem la permanenza nello Stato di uno straniero che non ha rinnovato il permesso di soggiorno, l’esecuzione della pena in regime di misura alternativa non potrebbe che avvenire, nel caso di specie, con violazione o, comunque, elusione delle norme che regolano il fenomeno dell’immigrazione.
Il rimettente ritiene che tale interpretazione, vincolante nel giudizio a quo, sia in contrasto con il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena al quale si ispirano i diversi benefici penitenziari extramurari, giustificandosi il trattamento carcerario solo fino al limite del pieno ravvedimento del condannato, limite oltre il quale non è consentita la prosecuzione della detenzione.
Osserva, infatti, il giudice a quo che, secondo quanto affermato dalla Corte di cassazione, per i detenuti stranieri non appartenenti ad uno Stato aderente all’Unione europea che si trovano nelle condizioni previste dall’art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, non sarebbe possibile accedere ai suddetti benefici seppure ritenuti, nel caso concreto, più idonei a soddisfare l’esigenza rieducativa del condannato, in tal modo creandosi un regime penitenziario speciale per tali soggetti, individuati non già alla stregua di indici rivelatori di una particolare pericolosità, quanto piuttosto di un dato del tutto estrinseco e formale, oltre che tendenzialmente immodificabile, quale la loro presenza irregolare nel territorio nazionale.
Tale disciplina, sempre secondo il rimettente, si porrebbe in contrasto con il principio affermato da questa Corte secondo cui ogni misura incidente in senso sfavorevole sul regime penitenziario del detenuto, come la revoca di un beneficio, deve conseguire ad una condotta addebitabile al condannato, in quanto la finalità rieducativa della pena, seppure non può ritenersi in senso assoluto prevalente su ogni altro valore costituzionale, non può, comunque, essere compressa fino al punto di venire del tutto cancellata da altri valori di rango costituzionale come, nel caso di specie, la disciplina dei flussi dei fenomeni migratori.
Conclude il rimettente ritenendo che l’art. 47, della legge n. 354 del 1975, che disciplina l’affidamento in prova, e gli artt. 5, 5-bis, 9, 13, del d.lgs. n. 286 del 1998, che prevedono, in caso di assenza di un titolo abilitativo, l’obbligatoria espulsione dello straniero irregolare, così come interpretati dalla Corte di cassazione, violerebbero l’art. 27, terzo comma, della Costituzione.
Ad analogo esito ricostruttivo si deve pervenire, sempre a parere del giudice a quo, con riferimento alla misura dell’ammissione al regime di semilibertà, misura che il Tribunale rimettente ritiene applicabile nel caso di specie, sia pure in via subordinata, qualora non dovesse concedere l’affidamento. In tal caso, peraltro, il contrasto con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione coinvolge, oltre agli artt. 48 e 50 della legge n. 354 del 1975, anche l’art. 22 del d.lgs. n. 286 del 1998, poiché lo svolgimento dell’attività lavorativa costituisce, a differenza di quanto avviene nel caso dell’affidamento, uno dei presupposti per l’ammissione al regime di semilibertà; per cui l’inderogabilità del divieto penale per il datore di lavoro che impieghi lo straniero irregolare in attività di lavoro subordinato, contenuta nel citato art. 22, configurerebbe un limite alla possibilità di accedere al beneficio in questione per il detenuto.
In punto di rilevanza, il rimettente osserva che la eventuale sanzione di incostituzionalità che dovesse colpire le disposizioni censurate sarebbe suscettibile di riverberarsi sul giudizio principale, potendo in tale caso emettersi un provvedimento che consentirebbe al ricorrente, il quale ha nel frattempo portato avanti la misura in modo del tutto impeccabile, di proseguire nel percorso di reinserimento attraverso l’affidamento o la semilibertà.
2.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile o infondata, senza motivare le suddette richieste.

Considerato in diritto
1.- Il Tribunale di sorveglianza di Cagliari dubita, in riferimento all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nonché degli artt. 5, 5-bis, 9, 13 e 22 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo).
Il rimettente, investito del giudizio di rinvio a seguito dell’annullamento, ad opera della Corte di cassazione, del provvedimento con il quale era stato concessa la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale ad un cittadino extracomunitario privo del permesso di soggiorno, assume che il principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, cui egli è vincolato, implicherebbe il contrasto delle norme sopra indicate con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione.
Secondo detto principio di diritto, la permanenza nello Stato dello straniero privo di un valido ed efficace permesso di soggiorno non può trovare titolo nella concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale. L’applicazione della suddetta misura comporterebbe, infatti, una deroga al d.lgs. n. 286 del 1998, ponendosi, anzi, in contrasto con l’art. 13 dello stesso decreto che disciplina, limitandone l’estensione e gli effetti, i casi di interferenza dei provvedimenti giurisdizionali sulla posizione dello straniero illegalmente presente nel territorio dello Stato.
A parere del rimettente, il cennato principio di diritto determinerebbe, in violazione del precetto costituzionale della finalità rieducativa della pena, un regime penitenziario speciale e di sfavore nei confronti di un insieme di persone condannate, vale a dire i cittadini stranieri irregolarmente presenti nel territorio dello Stato, individuati, non già sulla base di indici rivelatori di una particolare pericolosità sociale ? secondo modalità già sperimentate nell’ambito dell’ordinamento penitenziario ? quanto sulla scorta di un dato «estrinseco e formale», quale il difetto di titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato. In tal modo risulterebbe eluso, sempre a parere del giudice a quo, il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, in forza del quale ogni misura incidente in senso sfavorevole sul trattamento penitenziario deve conseguire ad una condotta colpevole addebitabile al condannato, non potendo le esigenze di difesa sociale ? ancorché rilevanti sul piano costituzionale, perché sottese alla regolamentazione dei flussi migratori ? annullare la finalità rieducativa della pena.
2.- In via preliminare, va affermata la rilevanza della questione di costituzionalità sollevata.
La consolidata giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 58 del 1995, n. 257 del 1994, n. 138 del 1993) ha, infatti, statuito la piena legittimazione del giudice di rinvio a sollevare dubbi di costituzionalità concernenti l’interpretazione normativa risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, e ciò in quanto il rimettente deve fare applicazione nel giudizio di rinvio della norma nel significato in tal modo attribuitole e non si è, dunque, al cospetto di rapporti “esauriti”.
Il vincolo di conformazione del giudice di rinvio al principio di diritto, peraltro, non viene meno in caso di successivi mutamenti degli indirizzi interpretativi del medesimo giudice di legittimità, sì da consentire al giudice del rinvio l’adozione di approcci ermeneutici diversi dai contenuti cristallizzati nel principio di diritto ed eventualmente risolutivi del dubbio di costituzionalità (sentenza n. 130 del 1993).
Stante, dunque, l’obbligatoria applicazione delle regulae iuris enunciate all’esito del giudizio rescindente da parte del giudice di rinvio e la facoltà riconosciuta a quest’ultimo di revocare in dubbio, sotto il profilo della legittimità costituzionale dette regole, oggetto dello scrutinio di costituzionalità risulta essere la norma nella “lettura” fornita dalla Corte di cassazione (ordinanza n. 501 del 2000), essendo ininfluenti, ai fini del presente giudizio, eventuali diverse interpretazioni fornite dal giudice di legittimità delle norme impugnate.
3.- Nel merito, la questione è fondata.
Il dubbio di costituzionalità ha, alla sua radice, il problema ermeneutico legato alla possibile interazione tra le disposizioni della legge n. 354 del 1975, che prevedono le modalità e le condizioni per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, e le regole contenute nel d.lgs. n. 286 del 1998, che disciplinano l’ingresso e la permanenza nel territorio dello Stato dei cittadini extracomunitari.
Al riguardo, si è posto l’interrogativo se le misure alternative ? ed, in specie, con riguardo al caso in esame, l’affidamento in prova al servizio sociale o la semilibertà ? possano applicarsi al cittadino extracomunitario che sia entrato illegalmente in Italia o sia privo di permesso di soggiorno, cioè ad un soggetto che, se non si trovasse a dover espiare una pena, andrebbe espulso dal territorio nazionale.
Il vaglio interpretativo della Corte di cassazione ha registrato, in proposito, due contrastanti indirizzi.
Per il primo di essi ? fatto proprio anche dalla sentenza di annullamento con la quale è stato enunciato il principio di diritto censurato – la condizione di clandestinità o irregolarità dello straniero precluderebbe senz’altro l’accesso alle misure alternative. Ciò in quanto, nel rigore della disciplina dettata dal testo unico in materia di immigrazione, non potrebbe ammettersi che l’esecuzione della pena, nei confronti dello straniero presente contra legem nel territorio dello Stato, abbia luogo con modalità tali da comportare la violazione delle regole che configurano detta condizione di illegalità; senza considerare, poi – si aggiunge – che, con particolare riferimento all’affidamento in prova, risulterebbe impossibile instaurare, proprio a fronte della condizione in discorso, la necessaria interazione tra il condannato e il servizio sociale.
Per contro, alla stregua di altra corrente interpretativa ? confortata da una recente pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione, successiva all’ordinanza di rimessione (sentenza n. 14500 del 28 marzo 2006) ? la presenza illegale nel territorio dello Stato, pur esponendo lo straniero all’espulsione amministrativa, da eseguire dopo l’espiazione della pena, non osterebbe alla concessione delle misure alternative, quante volte il giudice – sia pure in esito ad un vaglio adeguatamente rigoroso, in correlazione alla particolare situazione del richiedente – ravvisi comunque la sussistenza dei presupposti di accesso alle misure medesime, quali stabiliti dalla legge sull’ordinamento penitenziario. In particolare, secondo tale ultimo orientamento, le misure alternative ? che costituiscono altrettante modalità di esecuzione della pena e le cui prescrizioni rivestono, dunque, carattere «sanzionatorio-afflittivo» ? mirano ad attuare i «preminenti valori costituzionali della eguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena (artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione)», con la conseguenza che la loro applicazione non può essere esclusa a priori ed in ragione di una presunzione assoluta di inidoneità legata alla condizione di clandestinità o irregolarità della presenza sul territorio nazionale del detenuto, dovendosi, per contro, formulare in concreto il richiesto giudizio prognostico attinente alla rieducazione del condannato ed alla prevenzione del pericolo di reiterazione dei reati.
4.- A fronte delle delineate diverse soluzioni interpretative va, preliminarmente, rilevato che, conformemente a quanto sancito dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione, la legge n. 354 del 1975, nell’indicare i principi direttivi ai quali deve ispirarsi il trattamento penitenziario, statuisce, per un verso, che nei confronti dei condannati ed internati debba essere attuato, secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti, un trattamento rieducativo che tenda al «reinserimento sociale» degli stessi; e, per altro verso, che il trattamento penitenziario debba essere «improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose» (art. 1).
Questa Corte, nell’ambito di giudizi aventi ad oggetto le disposizioni contenute nella legge n. 354 del 1975, con riferimento alla finalità rieducativa della pena, ha, d’altro canto, costantemente affermato che detta finalità deve contemperarsi con le altre funzioni che la Costituzione assegna alla pena medesima (vale a dire: prevenzione generale, difesa sociale, prevenzione speciale). Tale principio di armonica coesistenza deve ispirare l’esercizio della discrezionalità che in materia compete al legislatore, le cui scelte risulteranno non irragionevoli e rispettose del precetto dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, allorquando, pur privilegiando l’una o l’altra delle suddette finalità, il sacrificio che si arreca ad una di esse risulti assolutamente necessario per il soddisfacimento dell’altra e, comunque, purché nessuna ne risulti obliterata (sentenze n. 257 del 2006 e n. 306 del 1993).
Su siffatte premesse, questa Corte, tenuto conto dei principi di proporzione e individualizzazione della pena propri del trattamento penitenziario, ha ritenuto che contrastano con la finalità rieducativa della stessa quelle norme che precludono l’accesso ai benefici penitenziari in ragione del semplice nomen iuris del reato per il quale è stata pronunciata la condanna (si veda la già citata sentenza n. 306 del 1993). La Corte ha, altresì, statuito l’incompatibilità costituzionale, rispetto all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, della preclusione all’ottenimento di una nuova liberazione condizionale da parte del condannato all’ergastolo, cui tale misura sia stata in precedenza revocata in conseguenza della commissione di un delitto o di una contravvenzione della stessa indole o della trasgressione degli obblighi inerenti alla libertà vigilata; e ciò anche quando sussista il presupposto del sicuro ravvedimento (sentenza n. 161 del 1997, che ha dichiarato, di conseguenza, costituzionalmente illegittimo l’art. 177, comma 1, ultimo periodo, del codice penale). Una simile preclusione, per il suo carattere assoluto ed automatico, avrebbe, infatti, escluso il condannato in modo permanente e definitivo dal processo rieducativo e di reinserimento sociale.
Tali principi risultano pienamente conferenti in relazione all’odierno scrutinio di costituzionalità.
Invero, l’incompatibilità rispetto all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, che attinge le norme censurate in esito al vincolante principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione, deriva dal fatto che quest’ultimo si risolve nella radicale esclusione dalle misure alternative alla detenzione di un’intera categoria di soggetti, individuata sulla base di un indice – la qualità di cittadino extracomunitario presente irregolarmente sul territorio dello Stato – privo di univoco significato rispetto ai valori rilevanti ai fini considerati.
Detta esclusione assume, cioè, carattere assoluto quanto all’oggetto, abbracciando indistintamente l’intera gamma delle misure alternative alla detenzione e, dunque, un complesso di misure dai connotati profondamente diversificati e dai contenuti estremamente variegati, in quanto espressione dell’esigenza di realizzare una progressione del trattamento. Al tempo stesso, tale preclusione risulta collegata in modo automatico ad una condizione soggettiva – il mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato – che, di per sé, non è univocamente sintomatica né di una particolare pericolosità sociale, incompatibile con il perseguimento di un percorso rieducativo attraverso qualsiasi misura alternativa, né della sicura assenza di un collegamento col territorio, che impedisca la proficua applicazione della misura medesima. In conseguenza di siffatto automatismo, vengono quindi ad essere irragionevolmente accomunate situazioni soggettive assai eterogenee: quali, ad esempio, quella dello straniero entrato clandestinamente nel territorio dello Stato in violazione del divieto di reingresso e detenuto proprio per tale causa, e quella dello straniero che abbia semplicemente omesso di chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno e che sia detenuto per un reato non riguardante la disciplina dell’immigrazione.
Quanto, poi, alla incompatibilità fra la disciplina del testo unico in materia di immigrazione e l’applicazione di misure alternative alla detenzione, pure evocata a fondamento del principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, occorre considerare che, in realtà, è proprio la condizione di persona soggetta all’esecuzione della pena che abilita ex lege – ed anzi costringe – lo straniero a permanere nel territorio dello Stato; e ciò, tanto se l’esecuzione abbia luogo nella forma intramuraria, quanto se abbia luogo, invece – a seguito della eventuale concessione di misure alternative – in forma extramuraria. In altre parole, nel momento stesso in cui prevede che l’esecuzione della pena “prevalga”, sospendendone l’attuazione, sulla espulsione cui il condannato extracomunitario sarebbe soggetto, il legislatore adotta una soluzione che implica l’accettazione della perdurante presenza dello straniero nel territorio nazionale durante il tempo di espiazione della pena stessa. Da ciò consegue l’impossibilità di individuare nella esigenza di rispetto delle regole in materia di ingresso e soggiorno in detto territorio una ragione giustificativa della radicale discriminazione dello straniero sul piano dell’accesso al percorso rieducativo, cui la concessione delle misure alternative è funzionale.
Il legislatore ben può, ovviamente ? tenuto conto della particolare situazione del detenuto cittadino extracomunitario che sia entrato illegalmente in Italia o sia privo di permesso di soggiorno ? diversificare, in rapporto ad essa, le condizioni di accesso, le modalità esecutive e le categorie di istituti trattamentali fruibili dal condannato o, addirittura, crearne di specifici, senza però potersi spingere fino al punto di sancire un divieto assoluto e generalizzato di accesso alle misure alternative nei termini dinanzi evidenziati. Un simile divieto contrasta con gli stessi principi ispiratori dell’ordinamento penitenziario che, sulla scorta dei principi costituzionali della uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena (artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione), non opera alcuna discriminazione in merito al trattamento sulla base della liceità della presenza del soggetto nel territorio nazionale.
L’assoluta preclusione all’accesso alle misure alternative alla detenzione, nei casi in esame, prescinde, peraltro, dalla valutazione prognostica attinente alla rieducazione, al recupero e al reinserimento sociale del condannato e alla prevenzione del pericolo di reiterazione di reati, cosicché la finalità repressiva finisce per annullare quella rieducativa.
Va, pertanto, dichiarata la illegittimità costituzionale delle disposizioni di cui agli artt. 47, 48 e 50 della legge n. 354 del 1975, delle quali il giudice rimettente è chiamato a fare applicazione ai fini della richiesta concessione di misure alternative, ed alle quali va quindi limitata la declaratoria di incostituzionalità, ove interpretate nel senso che allo straniero extracomunitario, entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure alternative alla detenzione previste dai medesimi articoli. Resta ferma la evidenziata facoltà del legislatore di tenere eventualmente conto – in sede di modifica della disciplina vigente – della particolare situazione dello straniero clandestino o irregolare, nei termini e nei limiti che si sono in precedenza indicati.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), ove interpretati nel senso che allo straniero extracomunitario, entrato illegalmente nel territorio dello Stato o privo del permesso di soggiorno, sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure alternative da essi previste.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 marzo 2007.

F.to:
Franco BILE, Presidente
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2007.

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Corte Costituzionale SENTENZA N. 58 ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Avv. Ugo SPAGNOLI Presidente
- Prof. Antonio BALDASSARRE Giudice
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO "
- Avv. Mauro FERRI "
- Prof. Luigi MENGONI "
- Prof. Enzo CHELI "
- Dott. Renato GRANATA "
- Prof. Giuliano VASSALLI "
- Prof. Francesco GUIZZI "
- Prof. Cesare MIRABELLI "
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO "
- Avv. Massimo VARI "
- Dott. Cesare RUPERTO "
- Dott. Riccardo CHIEPPA "

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 86, primo comma, del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), promosso con l'ordinanza emessa il 17 maggio 1994 dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Noureddine Bachri, iscritta al n. 584 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell'8 febbraio 1995 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.



Ritenuto in fatto

1.- Il Tribunale di Roma, giudice di rinvio nel procedimento penale a carico di Noureddine Bachri, imputato del reato di cessione di sostanza stupefacente, ha sollevato questione di legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 3, 25, terzo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione - nei confronti dell'art. 86, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nella parte in cui obbliga il giudice a emettere, contestualmente alla condanna, l'ordine di espulsione dallo Stato, eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli articoli 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, precludendogli, in forza dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione della sospensione condizionale della pena inflitta.

Il giudice rimettente premette che il giudizio a quo segue alla pronunzia della Corte di cassazione che, annullando la sentenza dello stesso Tribunale limitatamente alla parte in cui concedeva il beneficio della sospensione condizionale della pena all'imputato condannato a sei mesi di reclusione, per il reato previsto dall'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, ha fissato il "principio di diritto", secondo il quale l'impugnato art. 86, primo comma, va interpretato nel senso che impone al giudice, senza alcuna valutazione in concreto della sussistenza della pericolosità sociale, di espellere dal territorio nazionale, una volta espiata la pena, lo straniero condannato per alcuni dei reati previsti dal testo unico in materia di stupefacenti, precludendogli, in ragione dell'irrogazione della misura di sicurezza dell'espulsione e in forza del divieto dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione della sospensione condizionale della pena inflitta. Lo stesso giudice a quo ricorda, sempre in via di premessa, che l'interpretazione appena menzionata appare del tutto isolata nella giurisprudenza formatasi sull'art. 86 (nonché sul previgente art. 81 della legge 22 dicembre 1975, n. 685, dall'analogo contenuto), anche con riferimento ad altre sentenze della Corte di cassazione, con le quali l'istituto dell'espulsione in oggetto, essendo ricondotto alla disciplina generale delle misure di sicurezza e presupponendo, quindi, dopo l'abrogazione dell'art. 204 c.p. da parte dell'art. 31 della legge n. 663 del 1986, la valutazione in concreto della pericolosità sociale del condannato, viene considerato come non preclusivo della concessione della sospensione condizionale della pena.

Ci posto, il giudice rimettente, ritenendosi vincolato, come giudice di rinvio, dal "principio di diritto" enunciato dalla pronunzia di annullamento della Corte di cassazione, afferma che la dovuta applicazione di tale principio gli impedirebbe di concedere la sospensione condizionale della pena, nonostante che ricorrano nel caso le condizioni oggettive e soggettive richieste dalla legge per tale beneficio, a meno che l'interpretazione sostenuta dalla stessa Corte di cassazione non si riveli contraria a Costituzione. E, in effetti, continua il giudice a quo, considerare che l'espulsione in oggetto sia una misura di sicurezza comportante eccezionalmente una presunzione legale di pericolosità sociale e, quindi, un automatismo nell'applicazione che prescinde da ogni accertamento in concreto da parte del giudice della medesima pericolosità, è un'interpretazione che sembra contrastare con gli artt. 3, 25, terzo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione.

Sotto il primo profilo, l'interpretazione contenuta nel "principio di diritto" affermato dalla Corte di cassazione appare, innanzitutto, viziata da irragionevolezza, comportando una ingiustificata deroga al principio generale secondo il quale l'applicazione delle misure di sicurezza debba avvenire previa la valutazione in concreto della pericolosità sociale del condannato; in secondo luogo, la stessa interpretazione sembra comportare una disparità di trattamento, poiché non consentirebbe che, a situazioni del tutto simili sotto il profilo soggettivo e oggettivo ai fini della concessione della sospensione condizionale della pena, possa corrispondere un'identità di valutazione a causa della preclusione connessa a un preteso ingiustificato automatismo nell'applicazione di una misura di sicurezza.

La stessa interpretazione sarebbe, poi, in contrasto con l'art. 25, terzo comma, della Costituzione, poiché postulerebbe la sottoposizione a una misura di sicurezza in difetto di una previsione legislativa: infatti, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, l'accertamento in concreto della pericolosità sociale del condannato appare necessario tanto all'atto dell'applicazione della misura di sicurezza personale, quanto al momento dell'esecuzione della stessa in caso di differimento.

Infine, l'impugnato art. 86, primo comma, come interpretato dalla Corte di cassazione nella pronunzia di annullamento con rinvio, violerebbe l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, per il fatto che la misura di sicurezza dell'espulsione, ove automaticamente applicata, inibirebbe allo straniero ogni possibilità di reinserimento sociale, postulando che sempre e comunque lo straniero continuerà a delinquere a prescindere da qualsiasi valutazione da parte del giudice della effettiva pericolosità sociale del condannato.

N, conclude il giudice a quo, varrebbe obiettare che l'espulsione rappresenti, nei riguardi dello straniero criminale, una ormai prevalente linea politica rimessa alla valutazione del legislatore e avallata da recenti sentenze della Corte costituzionale sull'art. 7, commi 12 bis e 12 ter, della legge 28 febbraio 1990, n. 39. In realtà, l'espulsione dello straniero regolata da queste ultime disposizioni, prevista in alternativa alla custodia cautelare e all'esecuzione della pena, è del tutto diversa da quella ora esaminata, trattandosi di un provvedimento adottato soltanto su richiesta dell'interessato o del suo difensore, e non gi imposta.

2.- Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Riguardo alla pretesa violazione dell'art. 25, terzo comma, della Costituzione, l'Avvocatura dello Stato rileva che quest'ultimo articolo si limita a ribadire il principio di legalità in materia di misure di sicurezza, che tuttavia non esclude la possibilità di tipizzare specifiche ipotesi di pericolosit alle quali collegare, in via obbligatoria e automatica, l'applicazione di determinate misure indipendentemente da ogni altro accertamento o considerazione.

In ordine alla asserita violazione dell'art. 3 della Costituzione, l'Avvocatura ricorda che la Corte costituzionale ha recentemente posto in rilievo, in materia di espulsione, la peculiarità della posizione dello straniero in relazione alla tutela di interessi pubblici inerenti alla sanità pubblica, alla politica di immigrazione e, ci che rileva nel caso di specie, alla sicurezza e all'ordine pubblico (nell'ipotesi: nel settore del traffico illecito di sostanze stupefacenti).

Infine, relativamente al prospettato contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, la difesa erariale osserva che quest'ultima norma, riguardando le modalità esecutive della pena, non esclude che al fatto oggettivo dell'accertata responsabilità penale possano collegarsi ulteriori conseguenze in ordine alla vita di relazione e alla sfera di capacità dell'interessato.

3.- In prossimità dell'udienza l'Avvocatura dello Stato ha depositato un'ulteriore memoria eccependo l'inammissibilità della questione. Quest'ultima, infatti, risolvendosi in una prospettazione di dubbi interpretativi o, ad essere pi precisi, nella formulazione dell'auspicio che la Corte operi una scelta fra due diversi modi di interpretare la norma impugnata, sembra prospettare un conflitto giurisprudenziale, non certo un vizio di costituzionalità della norma impugnata, e perciò, secondo la giurisprudenza costituzionale (v. ordd. nn. 848 del 1988, 77 del 1990 e 269 del 1991, nonché sent. n. 26 del 1990), dovrebbe esser dichiarata, innanzitutto, inammissibile.

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale di Roma, giudice di rinvio in un procedimento penale a carico di uno straniero extracomunitario imputato del reato di cessione di sostanza stupefacente, ha sollevato questione di legittimità costituzionale - per violazione degli artt. 3, 25, terzo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione - nei confronti dell'art. 86, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui obbliga il giudice a emettere, contestualmente alla condanna, l'ordine di espulsione dallo Stato, eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, precludendogli, in forza dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione della sospensione condizionale della pena inflitta.

L'Avvocatura dello Stato eccepisce preliminarmente l'inammissibilità della questione, adducendo che quest'ultima si risolva nella prospettazione di un dubbio interpretativo e comporti, quindi, la richiesta a questa Corte di dirimere un conflitto giurisprudenziale scegliendo tra due diversi modi d'interpretare la norma impugnata.

2.- L'eccezione d'inammissibilità va respinta, poiché, sin dalla sentenza n. 30 del 1990, è stato ritenuto "consolidato indirizzo di questa Corte" quello secondo il quale il giudice di rinvio può sollevare, come avviene nel caso di specie, dubbi di costituzionalità concernenti l'interpretazione normativa risultante dal "principio di diritto" enunciato dalla Corte di cassazione: dovendo, infatti, la norma, nel significato attribuitole dalla Corte di cassazione, ricevere ancora applicazione nella fase di rinvio, "il precludere che su di essa vengano prospettate questioni di legittimità costituzionale comporterebbe un'indubbia violazione delle disposizioni regolanti la materia (art. 1, legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87)" (v. sent. n. 30 del 1990, nonché sentt. nn. 257 del 1994, 130 del 1993, 2 e 345 del 1987, 21 del 1982, 11 del 1981, 138 del 1977).

Ed invero, nel respingere analoghe eccezioni dell'Avvocatura dello Stato, questa Corte ha chiarito, anche di recente, che, ai sensi delle ora citate disposizioni regolanti l'accesso delle questioni nel processo costituzionale, per aversi una questione di legittimità costituzionale validamente posta, è sufficiente che il giudice a quo riconduca alla disposizione contestata una interpretazione non implausibile della quale egli, a una valutazione compiuta in una fase meramente iniziale del processo, ritenga di dover fare applicazione nel giudizio principale e sulla quale egli nutra dubbi non arbitrari, o non pretestuosi, di conformità a determinate norme costituzionali (v., ad esempio, sentt. nn. 31 del 1995, 463 del 1994, 51 del 1992, 64 del 1991, 41 del 1990). La stessa Corte ha, anzi, significativamente precisato che la questione di costituzionalità è validamente posta anche quando il giudice a quo, affermando motivatamente di dubitare dell'orientamento giurisprudenziale prevalente o dominante, ritiene di dover applicare la disposizione contestata in un diverso o opposto significato normativo, semprechè l'interpretazione offerta non risulti del tutto implausibile, e cioè palesemente arbitraria (v. sentt. nn. 463 del 1994, 103, 112, 163, 344 del 1993, 436 del 1992).

Sicché può aversi questione d'interpretazione, anziché una di costituzionalità, soltanto nei casi in cui il giudice rimettente non individua profili di contrasto con determinati parametri costituzionali o, anche se formalmente li indica, in realtà chiede alla Corte di avallare determinate ipotesi interpretative senza sostanzialmente prospettare, riguardo alle interpretazioni assunte, dubbi di legittimità costituzionale (v., per quest'ultima ipotesi, ord. n. 274 del 1991). Ma questo non è il caso dell'ordinanza introduttiva del presente giudizio, nella quale il giudice a quo, dopo aver illustrato il "principio di diritto" enunciato dalla Corte di cassazione, concernente l'automatica sottoposizione dello straniero alla misura di sicurezza dell'espulsione, e dopo aver affermato di doverne fare applicazione nel giudizio principale, manifesta il dubbio che quel principio sia contrario a determinate norme della Costituzione, che comporterebbero la necessaria valutazione da parte del giudice della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato.

N contro tale conclusione possono desumersi argomenti dalle decisioni di questa Corte citate dall'Avvocatura dello Stato nella propria memoria di udienza. Le sentenze ricordate dalla difesa erariale, infatti, riguardano il diverso profilo d'inammissibilità relativo a questioni proposte in modo "perplesso" o "alternativo" o "ancipite" o "ipotetico", nel senso che in quei casi i giudici a quibus prospettavano pi possibilità interpretative della disposizione contestata senza scegliere e, quindi, indicare quella che essi ritenevano di dover applicare nel giudizio principale. Questo orientamento, indubbiamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (v., ad esempio, sentt. nn. 117 del 1994, 51 del 1992, 473, 472 e 456 del 1989, ordd. nn. 325 e 227 del 1994, 207 del 1993, 548 del 1988), è diverso da quello prospettato dall'Avvocatura dello Stato, poiché incide, innanzitutto, sulla problematica della rilevanza della questione, cioè dell'applicabilità delle norme impugnate nel giudizio principale, piuttosto che su quella della prospettazione, o meno, della violazione di parametri costituzionali, cioè della valida proposizione della questione nei suoi termini essenziali, prescritti dall'art. 23 della legge n. 87 del 1953.

3.- La questione è fondata.

Il giudice rimettente contesta la legittimità costituzionale di un "principio di diritto" enunciato dalla Corte di cassazione in una sentenza di annullamento, con rinvio, di una precedente decisione dello stesso Tribunale di Roma, con la quale a un cittadino marocchino, condannato per cessione di sostanza stupefacente, era stata concessa la sospensione condizionale della pena. Ponendosi in una posizione contraria rispetto ad altre decisioni della stessa Corte di cassazione, per le quali l'applicazione della misura di sicurezza dell'espulsione prevista dall'art. 86, primo comma, del D.P.R. n. 309 del 1990 comporta l'accertamento giudiziale della pericolosità sociale del condannato, la sentenza di annullamento con rinvio enuncia il "principio di diritto" secondo il quale la predetta misura di sicurezza dell'espulsione, eseguibile a pena espiata, dev'essere ordinata con la sentenza di condanna come conseguenza automatica della commissione del reato di cui all'art. 73 dello stesso testo unico, con l'effetto di costituire giuridico ostacolo, per l'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., alla concessione della sospensione condizionale della pena. Così interpretato, il citato art. 86, primo comma, si pone in contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

Configurata quale misura di sicurezza - come ritengono la giurisprudenza di merito e la stessa Corte di cassazione anche nella sopra menzionata sentenza di annullamento con rinvio - l'espulsione del condannato straniero prevista dall'art. 86, primo comma, del D.P.R. n. 309 del 1990 va inquadrata nell'ambito dell'ordinamento penale, nel quale, in seguito all'adozione dell'art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (che ha abrogato l'art. 204 c.p.), vige il principio che "tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate, previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto, è persona socialmente pericolosa". Rispetto a tale principio generale dell'ordinamento penale, un'ipotesi di presunzione ex lege della qualità di persona socialmente pericolosa, come è configurata dall'interpretazione contestata dal giudice a quo, dev'essere sottoposta, sotto il profilo dell'accertamento della legittimità costituzionale, al vaglio di un rigoroso scrutinio. Infatti, qualunque sia la natura che ontologicamente si intende assegnare alle misure di sicurezza, è indubitabile che le misure di sicurezza personali comportano comunque la privazione o la limitazione della libertà personale e, quindi, incidono in ogni caso su un valore che l'art. 13 della Costituzione riconosce come diritto inviolabile dell'uomo, sia esso cittadino o straniero (v., da ultimo, sent. n. 62 del 1994). Ed è giurisprudenza di questa Corte che, di fronte all'incisione di beni di tal pregio, il controllo di costituzionalità delle norme di legge contestate deve avvenire in modo da garantire che il sacrificio della libertà sia giustificato dall'effettiva realizzazione di altri valori costituzionali o non vada incontro a ostacoli insormontabili costituiti dalla protezione di altri valori costituzionali (v., ad esempio, sentt. nn. 63 del 1994, 81 del 1993, 368 del 1992, 366 del 1991).

Dall'interpretazione data dalla Corte di cassazione all'impugnato art. 86, primo comma, con il "principio di diritto" contestato deriva che quest'ultimo impone al giudice l'applicazione automatica dell'ordine di espulsione nei confronti dello straniero condannato per alcuno dei reati indicati dalla stessa disposizione censurata, senza consentire ad esso l'accertamento della sussistenza in concreto delle condizioni per un giudizio di pericolosità sociale del condannato. In conseguenza di ci, al giudice di merito è preclusa, ai sensi dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione della sospensione condizionale della pena inflitta, pur nelle ipotesi nelle quali sussistano, come nel caso dedotto nel giudizio principale, i requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla legge per l'erogazione di tal beneficio.

Di fronte all'esistenza in concreto di tali requisiti, la predetta preclusione evidenzia che l'art.86, primo comma, nell'interpretazione contestata dal giudice a quo, non contiene, per chi abbia commesso i reati ivi indicati, altro presupposto legale, perla determinazione presuntiva della pericolosità sociale del soggetto, che il fatto della condizione di straniero del condannato. Messa a confronto con le altre ipotesi di applicabilità della misura di sicurezza dell'espulsione, previste dagli artt. 235 e 312 c.p., le quali, pur essendo subordinate al presupposto di condotte obiettive altrettanto gravi rispetto a quelle considerate nell'impugnato art. 86, primo comma, comportano pur sempre, in ossequio alla regola generale stabilita dal ricordato art. 31 della legge n. 663 del 1986, la valutazione da parte del giudice della sussistenza in concreto della pericolosità sociale dello straniero condannato, l'ipotesi contestata configura un'irragionevole disparità di trattamento. E l'irragionevolezza risulta evidente se si considera anche che l'applicazione della misura di sicurezza della espulsione senza la valutazione del giudice alla stregua degli indici menzionati dall'art. 133 c.p. (cui fa rinvio l'art. 203, cpv., c.p.) e la conseguente preclusione della concessione della sospensione condizionale della pena frappongono ingiustificati ostacoli, non soltanto alla libertà personale, ma anche alle possibilità di sviluppo della personalità del condannato in vista dell'eventuale superamento della sua condizione come soggetto socialmente pericoloso.

N tale conclusione può essere efficacemente contrastata dal richiamo, operato dall'Avvocatura dello Stato, alle sentenze di questa Corte nn. 62 e 283 del 1994, relative all'espulsione dello straniero prevista dall'art. 7, commi 12 bis e 12 ter, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, nel testo introdotto dall'art. 8, primo comma, del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187. In quelle decisioni, infatti, è stato precisato che l'espulsione ivi prevista è un istituto diverso da quello ora considerato, trattandosi di un'ipotesi di sospensione della esecuzione della custodia cautelare in carcere, ovvero dell'espiazione della pena, condizionata dalla richiesta dell'interessato (o del suo difensore), richiesta che - si precisa nella sentenza n. 62 del 1994 - "rappresenta, come si deduce anche dai lavori preparatori, un requisito diretto, nella fattispecie, ad armonizzare la condizione dello straniero ai valori costituzionali cui il legislatore deve riferirsi nel prevedere una misura pur sempre incidente sulla libert personale, cioè su un diritto inviolabile dell'uomo".

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 86, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui obbliga il giudice a emettere, senza l'accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale, contestualmente alla condanna, l'ordine di espulsione, eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, del medesimo testo unico.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta.


Corte Costituzionale SENTENZA N. 257 ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE

Composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, n. 1, della legge 17 luglio 1942, n. 907 (Legge sul monopolio dei sali e dei tabacchi), promosso con ordinanza emessa il 6 luglio 1993 dalla Corte d'appello di Firenze nel procedimento civile vertente tra la s.a. Solvay e C.ie e l'Amministrazione dei monopoli - ministero delle finanze, iscritta al n. 803 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Visti gli atti di costituzione della s.a. Solvay e C.ie e della Amministrazione autonoma Monopoli di Stato nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 24 maggio 1994 il Giudice relatore Gabriele Pescatore;

uditi gli avvocati Pasquale Russo, Stefano Grassi, Piero d'Amelio e Paolo Barile per la s.a. Solvay e C.ie e l'Avvocato dello Stato Stefano Onufrio per l'Amministrazione autonoma Monopoli di Stato e per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. La Corte d'appello di Firenze, nel corso del procedimento civile vertente tra la società in accomandita semplice Solvay e C.ie e l'Amministrazione dei monopoli - ministero delle finanze, con ordinanza del 6 luglio 1993 (R.O. n. 803 del 1993), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, n. 1, della legge 17 luglio 1942, n. 907 (Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato), per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui differenzia i concessionari di miniere di sale da quelli di tutte le altre miniere, assoggettando l'estrazione del sale a concessione traslativa onerosa ed aggiuntiva rispetto alla concessione mineraria, a tutela della riserva monopolistica esercitata dallo Stato a norma dell'art. 1 della stessa legge n. 907 del 1942, nell'apparente assenza delle condizioni cui l'art. 43 della Costituzione subordina la legittimità di tale riserva.

Oggetto del giudizio a quo è il canone dovuto all'amministrazione dei monopoli di Stato per l'estrazione del sale dalle miniere di Buriano e Ponte Ginori, di cui l'attrice è concessionaria in perpetuo.

Dal 1o gennaio 1973 la Solvay aveva cessato di corrispondere tale canone, ritenendo che esso fosse stato caducato già dalla legge 5 luglio 1966, n. 519, che aveva esentato da qualsiasi carico fiscale il sale destinato all'industria e, comunque, dal decreto-legge 18 dicembre 1972, n. 787, che aveva soppresso le imposte di consumo, in rapporto alla introduzione dell'I.V.A. ad opera del d.P.R. n. 633 del 1972, e dalla legge 16 febbraio 1973, n. 10, di conversione dello stesso, che aveva abolito il monopolio di vendita del sale. E, a fronte della intimazione di pagamento ricevuta dall'Amministrazione dei monopoli, aveva adito il tribunale chiedendo che dichiarasse non essere più dovuto il canone richiesto.

La domanda veniva disattesa dal Tribunale, mentre la Corte d'appello, in parziale accoglimento del successivo gravame, riteneva che il versamento del canone non fosse dovuto a far data dal 1o gennaio 1973.

La sentenza della Corte veniva, poi, annullata con rinvio dalla Cassazione (sentenza 12 dicembre 1986, n. 7419), che riconosceva il persistente obbligo di pagamento del canone contestato, di cui negava la natura pubblicistica - e cioé di corrispettivo di una facoltà oggetto di privativa - riconoscendo, invece, ad esso la funzione di corrispettivo della concessione traslativa del diritto di produrre sale, conseguente al diritto di proprietà dello stesso, e dei derivati diritti di utilizzazione.

Il giudice di rinvio dubita della legittimità costituzionale dell'art. 3, n. 1 della legge n. 907 del 1942 - che subordina la concessione per l'estrazione del sale al pagamento di un canone - proprio nella interpretazione che ne è data dalla Cassazione.

La norma in questione, rileva la Corte d'appello di Firenze, prevede una concessione onerosa, la quale si aggiunge alla concessione mineraria, che, secondo il giudice di legittimità, costituisce titolo solo per l'uso esclusivo dell'immobile.

La descritta disciplina collocherebbe i concessionari di miniere di sale, e quindi la società Solvay, in un posizione differenziata, e deteriore rispetto ai concessionari delle altre miniere, assoggettandola ad una prestazione patrimoniale non dovuta dagli altri, i quali, con la concessione mineraria di cui al r.d. 1443 del 1927, conseguono anche il diritto di apprendere i frutti, secondo le disposizioni che disciplinano gli immobili, cui lo stesso regio decreto n. 1443 rinvia.

Tanto più irrazionale appare al collegio remittente siffatta discriminazione - peraltro non prevista nella legge mineraria - in quanto il canone in esame si collegherebbe alla anomala sopravvivenza della riserva monopolistica del sale, sia pure in forma di monopolio solamente industriale, alla legge n. 10 del 1973, che ne ha abolito il monopolio di vendita.

La concessione traslativa del diritto di estrarre sale di proprietà dello Stato, ed il canone a fronte di essa dovuto, sarebbero, in sostanza, strumentali alla tutela della riserva monopolistica.

Riserva, che, secondo il giudice a quo, non sarebbe all'evidenza esercitata nel rispetto delle condizioni legittimanti il monopolio, poste dall'art. 43 della Costituzione. Essa, infatti, non sarebbe riferibile a fonti di energia, nè a situazione di monopolio in atto, non essendo, attualmente, la estrazione del sale gestita - e neanche gestibile, stante la riserva - da imprese o gruppi di imprese operanti come monopolisti sul mercato. Nè la generica destinazione a fini di utilità generale sarebbe motivo idoneo, da solo, a giustificare la riserva monopolistica, ove si consideri che manca quel carattere di "essenzialità" del servizio pubblico richiesto dal citato art. 43 Cost..

La essenzialità è, infatti, collegata alla irrinunciabilità, mentre il carattere rinunciabile della riserva statale di estrazione del sale, osserva la Corte remittente, è stato di recente riconosciuto dalla normativa di privatizzazione dell'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, di cui al citato d.l. n. 386 del 1991, convertito nella legge n. 35 del 1992, e può, altresì, ritenersi riconosciuto, almeno per gli operatori che, come la Solvay, destinano il sale estratto alla propria produzione, anche dalla normativa di tutela della concorrenza e del mercato, di cui alla legge n. 287 del 1990, che ha sancito il diritto alla autoproduzione.

2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha preliminarmente eccepito la inammissibilità per irrilevanza della questione per un duplice ordine di considerazioni.

Sotto un primo profilo, osserva l'Avvocatura che, dovendo il giudice di rinvio uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla Cassazione, secondo il quale il canone previsto dall'art. 3, n. 1, della legge n.907 del 1942 non ha natura tributaria, ma negoziale, il regime di monopolio non verrebbe in discussione e, conseguentemente, la questione attinente alla sospettata violazione dell'art. 43 della Costituzione, non avrebbe rilevanza rispetto alla decisione che la Corte remittente è chiamata ad emettere.

In secondo luogo, e con riferimento al presunto vulnus all'art. 43, come all'art. 3 della Costituzione, la forza vincolante della volontà espressa dalla società Solvay nella convenzione stipulata il 18 aprile 1956 con l'Amministrazione, con la quale essa si era obbligata a corrispondere il canone in questione, si sottrarrebbe al confronto con entrambe le norme costituzionali invocate.

Nel merito, l'Avvocatura sostiene la insussistenza del contrasto dell'attuale vigenza del monopolio estrattivo del sale con l'art. 43 della Costituzione. dato il carattere di preminente interesse generale della privativa in esame.

Quanto alla lamentata lesione dell'art. 3 della Costituzione, l'Avvocatura la ritiene insussistente alla stregua del rilievo che la legge mineraria n. 1443 del 1927 non esclude il pagamento di un canone a carico di concessionari di miniere diverse da quelle di salgemma, e che il quesito se costoro debbano essere o no gravati di un canone per il prodotto estratto costituirebbe un problema di carattere economico che l'Amministrazione è chiamata a risolvere di volta in volta, a seconda dell'interesse patrimoniale che essa annette al valore del prodotto estratto.

Tale argomentazione sarebbe suffragata dalla lettura dell'art. 18, primo comma, lett. g), della legge n. 1443 del 1927, in base al quale il decreto di concessione mineraria, insieme con gli altri requisiti, deve contenere la "indicazione" della eventuale partecipazione dello Stato ai profitti dell'azienda, da determinarsi dopo aver udito il ministro per le finanze.

L'Avvocatura contesta, infine, un ulteriore argomento contenuto nella ordinanza di rimessione, precisando che la privatizzazione dell'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, peraltro non compiuta, non avrebbe potuto comunque suffragare la tesi della illegittimità costituzionale della norma in questione. Sarebbe stata, infatti, la nuova s.p.a., costituita al posto dell'Amministrazione, a subentrare, in quanto proprietaria per legge delle acque salse estratte dalle miniere, nell'ingente credito nei confronti della Solvay, la cui entità è stata quantificata nella misura risultante dalla documentazione prodotta in una successiva memoria dell'Avvocatura.

3. Nel giudizio si è costituita la società Solvay, concludendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata, ed affidando le proprie deduzioni ad una memoria, depositata successivamente, nella quale contesta le eccezioni d'inammissibilità, sollevate dall'Avvocatura dello Stato.

Osserva, in proposito, che la previsione di un canone dovuto in funzione dell'acquisto della proprietà del sale, espressa nel principio di diritto della Cassazione, costituisce deroga irrazionale ed ingiustificata alla disciplina generale delle concessioni minerarie, rendendo rilevante la relativa questione di legittimità.

Nè avrebbe pregio la eccezione di inammissibilità conseguente all'impegno contrattualmente assunto dalla società Solvay, in quanto, in seno alla convenzione stipulata, la previsione del canone in questione non è frutto di una libera determinazione negoziale, ma è imposto da una norma di legge.

Nel merito, la difesa della parte privata ha aderito alle argomentazioni del collegio a quo, richiamandosi, poi, in particolare, alla disciplina generale del codice civile in materia di frutti, che si applica a titolari di concessioni minerarie non riguardanti il sale per uso industriale. Costoro avrebbero un potere d'uso concretantesi nello svolgimento di un'attività rivolta alla separazione dei frutti, ossia di porzioni di minerale dalla miniera, ed al conseguente acquisto della proprietà degli stessi, mentre il concessionario di una miniera di salgemma - nonostante che la legge mineraria non faccia alcuna distinzione al riguardo - non diventerebbe proprietario del sale, da lui estratto, in modo automatico, ma solo acquistandolo previo versamento di un corrispettivo.

Nè tale deteriore trattamento potrebbe essere giustificato sulla base della riserva monopolistica riguardante l'estrazione del sale, che si porrebbe in contrasto con l'art. 43 della Costituzione, non essendo l'estrazione del sale riferibile ad alcuna delle previsioni legittimanti poste dallo stesso art. 43.

La difesa della società Solvay ritiene che non sia applicabile al caso di specie l'orientamento della Corte costituzionale sulla legittimità del monopolio di vendita dei tabacchi, in quanto in quella ipotesi si è potuto escludere la violazione dell'art. 43 Cost. attraverso il riferimento ad una serie di interessi pubblici generali non ravvisabili in questo caso. Tutt'al più, potrebbe trattarsi, nella ipotesi in esame, d'illegittimità costituzionale solo sopravvenuta.

La norma impugnata si sarebbe, cioé, potuta considerare conforme all'art. 43 Cost. fino a quando, con l'abolizione, dovuta alla legge n.10 del 1973, di conversione del d.l. n. 787 del 1972, del monopolio fiscale di vendita del sale, e conseguente estinzione di un'entrata tributaria - che si sarebbe potuta configurare come una ragione di utilità generale - è residuato solo il monopolio industriale sulla produzione del sale, privo di ogni supporto di carattere fiscale che giustifichi la permanenza della riserva originaria.

Considerato in diritto

1. La Corte d'appello di Firenze dubita della legittimità costituzionale dell'art. 3, n. 1, della legge 17 luglio 1942, n. 907, nella parte in cui assoggetta l'estrazione del sale da giacimenti e dall'acqua di sorgenti a concessione da parte dell'Amministrazione dei monopoli, subordinata al pagamento di un canone annuo, da stabilirsi con decreto del ministro per le finanze, sentito il consiglio di amministrazione dei monopoli di Stato.

Tale disposizione, ad avviso della Corte d'appello di Firenze, si porrebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione per il fatto di collocare i concessionari di salgemma in una posizione irrazionalmente differenziata, e deteriore, rispetto a quelli di tutte le altre miniere, assoggettandoli ad una prestazione patrimoniale, il canone, non dovuta dagli altri (in quanto aggiuntiva rispetto al diritto proporzionale annuo di concessione mineraria), a tutela della riserva monopolistica esercitata dallo Stato a norma dell'art.

1 della stessa legge n. 907 del 1942, "nell'apparente assenza" delle condizioni poste dall'art. 43 della Costituzione.

2. Vanno preliminarmente disattese le eccezioni di inammissibilità per irrilevanza sollevate dall'Avvocatura generale dello Stato sia con riferimento specifico alla dedotta violazione dell'art. 43 della Costituzione, sia con riguardo ad entrambe le norme costituzionali - artt.3 e 43 della Costituzione - di cui si lamenta il vulnus.

Sotto il primo profilo, l'Avvocatura ha richiamato il principio di diritto enunciato dalla Cassazione (sent. n. 7419 del 1986, già citata nella narrazione del fatto), alla stregua del quale il canone previsto dall'art. 3, n. 1, della legge n. 907 del 1942 non ha natura tributaria ma negoziale, vale a dire di corrispettivo per la cessione del sale estratto dalle miniere in questione, con conseguente esclusione del venir meno dell'obbligo della relativa corresponsione in conseguenza dell'abolizione dell'imposta di consumo gravante sul sale e sul monopolio di vendita dello stesso.

Dalla vincolatività di tale principio per il giudice a quo, in quanto giudice di rinvio, deriverebbe la irrilevanza del quesito in ordine alla presunta carenza, nel regime di monopolio del sale, sopravvissuto in forma di monopolio industriale, delle condizioni cui l'art. 43 della Costituzione subordina la legittimità di siffatto regime, dal momento che questo, nel caso di specie, non viene in discussione.

Per altro verso, l'Avvocatura perviene alla medesima conclusione della inammissibilità per irrilevanza della questione in riferimento sia all'art. 43 che all'art. 3 della Costituzione, argomentando dall'obbligo assunto dalla società Solvay, con la convenzione stipulata nel 1956 con la direzione generale dell'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, a corrispondere il canone in questione. Una volta formato il giudicato sulla esistenza della obbligazione, verrebbe, quindi, in rilievo la forza vincolante della norma contrattuale, che paralizzerebbe la questione di costituzionalità.

La prima delle eccezioni è da respingere, in base alla giurisprudenza di questa Corte (cfr., da ultimo, sentt. nn.138 del 1993, 289 del 1992, 30 del 1990), che esclude che il regime delle preclusioni proprio del giudizio di rinvio impedisca la proposizione della questione di legittimità costituzionale della norma, dalla quale è stato tratto il principio di diritto cui deve uniformarsi il giudice di rinvio.

Nemmeno può riconoscersi pregio al secondo profilo di inammissibilità sollevato dall'Avvocatura. A prescindere, infatti, dalla considerazione che la convenzione stipulata dalla Solvay con l'Amministrazione aveva durata trentennale, con decorrenza dal 1956 ed efficacia sino al 1986, mentre la predetta società ha smesso di corrispondere il canone contestato sin dal 1973, è agevole rilevare che il fondamento normativo della pretesa alla corresponsione del canone è da rinvenire in una previsione legislativa (art. 3, n. 1, l. 17 luglio 1942, n. 907), che subordina la concessione al pagamento di un canone annuo da stabilirsi con decreto del Ministro per le finanze, sentito il Consiglio di amministrazione dei monopoli di Stato. Sì che la determinazione del canone contenuta nella concessione e le implicazioni giurisdizionali ad essa relative non toccano in alcun modo il problema della legittimità della norma di legge, di cui è questione, che costituisce il fondamento di detto canone.

La questione è pertanto ammissibile.

3. Nel merito, la questione stessa non è fondata.

L'art. 3, n. 1, della legge n. 907 del 1942 assoggetta l'attività di estrazione del sale destinato all'industria ad un provvedimento concessorio.

La concessione è onerosa; essa comporta un corrispettivo da devolvere all'Amministrazione, consistente, come già accennato, in un canone annuo stabilito con decreto del Ministro per le finanze, sentito il consiglio di amministrazione dei monopoli di Stato.

É da rilevare che il concessionario è tenuto anche al versamento alla stessa amministrazione del diritto proporzionale previsto dagli artt. 18, lett. d), e 25 del R.D.29 luglio 1927, n. 1443.

Secondo la Corte remittente, tale sovrapposizione di discipline, con imposizione a carico dei concessionari di miniere di salgemma di un duplice onere finanziario, discriminerebbe in modo irrazionale tale categoria rispetto a tutti gli altri con cessionari di miniere, che acquisirebbero il diritto di percepire i frutti per il solo fatto della titolarità della concessione.

Va, in proposito, rilevato che gli elementi costitutivi della concessione mineraria si ricavano dalla disciplina contenuta nel capo II del R.D.29 luglio 1927, n. 1443 e, in particolare, dall'art. 18 di esso, che menziona, tra le altre prescrizioni, che il decreto di concessione contiene: ... d) l'indicazione del diritto proporzionale da pagarsi dal concessionario ai termini dell'art. 25, riferito ad ogni ettaro di superficie; ... f) tutti gli altri obblighi e le condizioni cui si intende subordinare la concessione; g) l'indicazione dell'eventuale partecipazione dello Stato ai pro fitti dell'azienda, da determinarsi dopo aver udito il Ministro per le finanze.

Per tutte le concessioni minerarie sono, dunque, previsti, dalla legge fondamentale che le disciplina, la corresponsione del diritto proporzionale nonchè altri eventuali obblighi e condizioni, in essi compresa l'eventuale partecipazione ai profitti da parte dell'Amministrazione.

La l. 17 luglio 1942, n. 907, stabilendo nell'art. 3, n. 1 - oggetto dell'attuale impugnativa - il pagamento di un canone per l'estrazione del sale, esplicita e specifica quella previsione generale di obblighi e condizioni, contenuta nella lett. f) dell'art. 18 della legge n. 1443 del 1927, a carico del concessionario.

Sotto questo aspetto, quindi, la concessione di estrazione del sale non si diversifica, nelle previsioni e nello schema normativo, dalle altre concessioni minerarie.

La facoltà di stabilire altri obblighi e condizioni rispetto a quelli direttamente regolati dalla legge mineraria è sancita in modo espresso da questa stessa legge, anche se rimessa alla valutazione specifica dell'Amministrazione.

Nel caso in cui, per le particolari categorie di concessioni e per l'incidenza sul loro oggetto, tali obblighi e condizioni vengano regolati direttamente da norme di legge, ciò non costituisce alterazione del tipo concessorio, dato che comunque la normativa di base comporta la possibilità di inserire detti elementi.

Non senza rilevare che, nella realtà concreta, la varietà dell'oggetto della concessione mineraria e la necessità del suo adeguamento alle situazioni particolari giustificano pienamente la valutazione discrezionale della pubblica Amministrazione delle condizioni e degli obblighi idonei a perseguire il pubblico interesse.

Nel caso, oggetto dell'attuale giudizio, il canone previsto dall'art.3, n. 1, della citata l. n. 907 del 1942, è stato ricondotto dalla Cassazione (sent. n. 7419 del 1986 cit.) alla facoltà di estrazione del sale in corrispettivo del trasferimento al privato del diritto di produrlo, spettante allo Stato come proprietario della miniera, bene del suo patrimonio indisponibile. Ne sono chiari indici, sempre nella fattispecie di cui è questione, la correlazione del canone all'entità del prodotto estratto (art. 9 della convenzione tra l'Amministrazione dei monopoli e la Solvay) e l'adeguamento del canone stesso alle variazioni dei prezzi (art. 15 della stessa convenzione).

La norma impugnata non realizza sostanziali disparità, nel sistema e nell'oggetto delle obbligazioni a carico del concessionario, che consentano di affermare la esistenza della violazione dell'art. 3 della Costituzione.

4. La Corte fiorentina trae ulteriore argomento a favore della affermata disparità di trattamento dal collegamento del canone previsto dalla norma impugnata con la riserva monopolistica di estrazione del sale, alla cui tutela esso sarebbe finalizzato. Tale riserva sarebbe illegittima, in quanto esercitata in assenza delle condizioni previste dall'art.43 della Costituzione, non essendo riferibile a fonti di energia, nè a situazioni di monopolio in atto da parte di imprese o gruppi di imprese, nè a servizi pubblici essenziali.

Il richiamo, nella fattispecie, a tali servizi, pur proposto nell'ordinanza di rimessione, è da escludere in base all'oggetto della concessione, trattandosi di bene immobile e di suoi prodotti.

Quanto alla riserva "monopolistica" dell'estrazione di sale, essa è conseguenza della qualità del bene in cui l'estrazione stessa si esplica, che appartiene allo Stato a titolo di proprietà indisponibile (art. 826, secondo comma, cod. civ.).

Siffatta qualifica comporta l'esclusività del titolo di appartenenza del bene e dei diritti (tra essi quelli di estrazione) inerenti al soggetto pubblico proprietario, con l'effetto che questo, in quanto titolare del diritto, è l'unico legittimato all'estrazione. Il bene è oggetto di attività industriale e l'industria può essere esercitata, come si è visto e si preciserà, direttamente dallo Stato ovvero concessa ai privati, con un sistema che vige nei confronti di tutti i beni del patrimonio indisponibile.

Trattandosi di un bene soggetto ad esaurimento, quando è oggetto di concessione, lo Stato fissa i limiti, la quantità e le modalità dell'estrazione, allo scopo di garantirne la funzione nell'interesse generale. Cessando la qualifica, cessa anche l'esclusività del titolo e della gestione dell'esercizio, ma fino a quando essa sussiste, il bene deve perseguire la sua destinazione (art. 828, secondo comma, cod.civ.), con la titolarità nello Stato degli anzidetti diritti e facoltà.

Derivando questi dalla qualifica o categoria del bene, non si versa in un caso tipico di monopolio, ai sensi dell'art. 43 della Costituzione, essendo i diritti di esclusiva di cui si tratta effetto automatico e conseguenziale di detta qualifica o categoria, determinata dalla natura e destinazione del bene.

Appartenendo i diritti allo Stato, e ponendosi questo, comunque, come titolare degli stessi anche ai sensi del predetto art. 43, non è ipotizzabile una nuova e diversa costituzione (o trasferimento) di riserva a suo favore, poichè la qualifica di proprietario del bene comporta di per sè tale legittimazione.

D'altra parte esclusiva o riserva, derivanti dalla natura di bene patrimoniale indisponibile delle miniere, perseguono interessi essenziali (dal lato igienico, alimentare, industriale, ecc.), oltre la valutazione dei riflessi economici e patrimoniali, che nella fattispecie esplicano notevole incidenza.

Si può, quindi, affermare che sussistono sufficienti elementi per giustificare riserva e monopolio dell'estrazione e dell'industria del sale e la diretta gestione di esse da parte dello Stato, che l'Avvocatura generale afferma realizzarsi, in Italia, in nove degli undici giacimenti esistenti nel continente (rimanendo le isole escluse), mentre per gli altri due si provvede mediante concessione.

Questa Corte ha già posto in luce, con riguardo al monopolio di vendita dei tabacchi (sent. n. 209 del 1976 e ord. n. 59 del 1984), che i fini pubblicistici perseguiti dal monopolio (tutela della salute, occupazione di lavoratori, provvista di bene essenziale, ecc.), consentono di giustificare tuttora, nonostante la progressiva liberalizzazione del monopolio stesso, la gestione diretta da parte dello Stato. Tale affermazione vale, e con maggiore incisività, per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile .

5. Per le considerazioni esposte la questione di legittimità costituzionale in esame non è fondata.



PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, n. 1 della legge 17 luglio 1942, n. 907 (Legge sul monopolio dei sali e dei tabacchi), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 43 della Costituzione, dalla Corte di appello di Firenze con la ordinanza indicata in epigrafe.



Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/06/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Gabriele PESCATORE, Redattore
Depositata in cancelleria il 23/06/94.

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Corte Costituzionale SENTENZA N. 138 ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE




composta dai signori:

Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del- l'articolo 2, secondo e terzo comma, della legge 20 dicembre 1932, n. 1849 (Riforma del testo unico delle leggi sulle servitù militari), così come sostituito dall'articolo 1 della legge 8 marzo 1968, n. 180 (Modificazioni della legge 20 dicembre 1932, n. 1849, concernente la riforma del testo unico delle leggi sulle servitù militari), promosso con ordinanza emessa il 18 giugno 1992 dalla Corte d'appello di Palermo nel procedimento civile vertente tra Adragna Rosario ed altra, e il Ministero della Difesa, iscritta al n. 663 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 1993 il Giudice relatore Luigi Mengoni.





Ritenuto in fatto

1 con sentenza n. 1549 del 1988 la Corte di cassazione ha parzialmente cassato la sentenza 25 ottobre 1976 con cui la Corte d'appello di Palermo aveva determinato l'indennità annuale spettante ai proprietari di un fondo temporaneamente assoggettati a servitù militare, e ha rinviato la causa ad altra sezione della medesima Corte d'appello stabilendo, quale principio di diritto vincolante per il giudice di rinvio, che - fermo per il periodo dal 19 luglio 1964 al 5 aprile 1968 l'indennizzo fissato dalla Corte d'appello in lire 2.480.000 annue sulla base del valore venale dell'immobile, secondo i criteri desumibili della legge 25 giugno 1865, n. 2359 - per il periol. Cdo dal 6 aprile 1968 al 19 giugno 1971, data di cessazione della servitù, l'indennizzo deve, invece, essere liquidato applicando il criterio automatico previsto dall'art.1 della legge 8 marzo 1968, n. 180, sostitutivo del testo dell'art. 2 della legge 20 dicembre 1932, n. 1849. Secondo tale legge l'indennizzo è pari a un quarto o un terzo, a seconda dei due casi, del reddito dominicale e agrario dei terreni e del reddito dei fabbricati, quali valutati ai fini dell'imposta complementare progressiva.

Poichè l'applicazione di siffatto criterio comporta nella specie un indennizzo irrisorio (di poche lire), a fronte del cospicuo indennizzo spettante per gli anni precedenti, la Corte d'appello di Palermo, in sede di giudizio di rinvio, con ordinanza del 18 giugno 1992 ha sollevato, in relazione all'art. 42, terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale del citato art. 2, secondo e terzo comma, della legge n. 1849 del 1932, come sostituito dall'art. 1 della legge n. 180 del 1968, "in quanto non prevede, per la determinazione dell'indennità, un criterio alternativo a quello automatico del riferimento ai valori della rendita catastale, laddove questo risulta inadeguato".

2. Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, eccependo preliminarmente un duplice motivo di inammissibilità della questione, sia perchè il giudice remittente era tenuto soltanto a quantificare l'indennizzo secondo il parametro legislativo indicato dalla Corte di cassazione con pronuncia preclusiva di ogni questione relativa a tale parametro, sia perchè non essendo citato nell'ordinanza di rimessione l'art.14, secondo comma, della legge 24 dicembre 1976, n. 898, non è stata individuata esattamente la disposizione da sottoporre al vaglio di costituzionalità. Un motivo ulteriore di inammissibilità è ravvisato nel dispositivo dell'ordinanza, che ipotizza una sentenza additiva invasiva della discrezionalità legislativa, essendo configurabile una pluralità di soluzioni.

Nel merito la questione sarebbe infondata considerato che l'entità dell'indennizzo risultante dal criterio di determinazione indicato dalla Corte di cassazione dipende dai valori di reddito dominicale e agrario, in parte nulli, e in parte ridottissimi, attribuiti al terreno in questione dall'amministrazione del Catasto in esito a una verifica straordinaria eseguita il 7 giugno 1972, quando la servitù militare era già esaurita.


Considerato in diritto

l. La Corte d'appello di Palermo ha sollevato, in riferimento all'art. 42, terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, secondo e terzo comma, della legge 20 dicembre 1932, n. 1849, come sostituito dall'art. 1 della legge 8 marzo 1968, n. 180, concernente l'indennizzo spettante ai proprietari di immobili colpiti da servitù militari, "in quanto non prevede, per la determinazione dell'indennità, un criterio alternativo a quello automatico del riferimento ai valori della rendita catastale, laddove questo risulta inadeguato".

2. Devono preliminarmente essere respinte le eccezioni di inammissibilità sollevate dall'Avvocatura dello Stato sotto il triplice profilo: a) che la questione è stata sollevata in sede di giudizio di rinvio nei confronti della norma risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione; b) che, non essendo citato nel dispositivo dell'ordinanza l'art. 14, secondo comma, della legge 24 dicembre 1976, n. 898, non sarebbe stato rispettato l'onere di individuare esattamente la disposizione da sottoporre a sindacato; c) che la sentenza additiva prospettata dal giudice a quo sarebbe invasiva delle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore.

La prima eccezione è respinta dalla giurisprudenza costante di questa Corte (cfr., da ultimo, sentt. nn. 289 del 1992, 30 del 1990, e qui richiamo delle pronunce anteriori), mentre alla seconda si oppone il rilievo che l'applicabilità nella specie della legge n. 180 del 1968 non dipende dall'art.14, secondo comma, della legge n. 898 del 1976, che è norma di mero richiamo della disciplina applicabile al periodo precedente la data di entrata in vigore della nuova legge, e precisamente il periodo dal 6 aprile 1968 al 12 gennaio 1977.

Pure la terza eccezione è infondata perchè l'alternativa formulata nel dispositivo dell'ordinanza, rettamente interpretata, prospetta una sentenza meramente caducatoria.

3. Dal giudice rimettente il criterio di determinazione dell'indennità di asservimento indicato dalla disposizione impugnata è ritenuto inadeguato a garantire un "serio ristoro" quando la servitù militare colpisca un terreno dotato di "immediata attitudine edificatoria", come accade nel caso di specie, in cui - secondo quanto si legge nella sentenza della Corte di cassazione n. 1549 del 1988, pronunciata (con rinvio) nel processo a quo - "i vincoli imposti dall'autorità militare vengono a incidere sulla già maturata appetibilità del terreno, sul mercato immobiliare, non come fondo agricolo, ma quale bene dotato di un più elevato valore di scambio perchè destinato all'urbanizzazione".

Se così è - e lo dimostra il risultato del calcolo operato dal giudice a quo - il detto criterio deve considerarsi inadeguato in generale, potendo dirsi adeguato solo un criterio che, presupposta la correttezza delle stime che forniscono i coefficienti di calcolo, determini in ogni caso un equo indennizzo della perdita patrimoniale subita dal proprietario.

Perciò l'alternativa prospettata nell'ordinanza di rimessione, senza alcuna specificazione di contenuto, non può essere intesa nel senso di una disgiuntiva inclusiva, cioé in funzione di una sentenza aggiuntiva al criterio previsto dalla legge di un altro criterio, la scelta del quale sarebbe rimessa al giudice quando il primo si rivelasse inadeguato.

Essa va interpretata, piuttosto, come disgiuntiva esclusiva rivolta a una sentenza caducatoria, per effetto della quale si ripristinerebbe, per tutto il periodo indicato dall'art. 14, secondo comma, della legge n. 898 del 1976, la regola di calcolo dell'indennizzo desumibile dalla legge generale del 1865, alla quale si è riferita la giurisprudenza dopo la sentenza n. 6 del 1966.

4. Precisata nei termini ora detti, la questione è fondata.

Poichè l'imposizione di una servitù militare configura un caso analogo a quello dell'occupazione parziale e temporanea del fondo, il giudizio di congruità dell'indennizzo non può prescindere dal parametro del "giusto prezzo" risultante dagli artt. 40 e 68 della legge n. 2359 del 1865. Si tratta appunto di un parametro, non di un termine vincolante di esatta commisurazione (cfr. sentenze nn. 216 del 1990, 530 e 1022 del 1988, 138 del 1977): il legislatore rimane libero di adottare criteri più o meno automatici di determinazione dell'indennizzo, per esempio rapportandolo al valore catastale dell'immobile (risultante dalla moltiplicazione del reddito dominicale rivalutato per un certo coefficiente), oppure alla media, eventualmente corretta, del valore venale col reddito dominicale rivalutato (cfr. art. 5- bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359), sempre che le tariffe d'estimo siano stabilite in misura tale da produrre un risultato che, confrontato con quel parametro e tenuto conto degli interessi generali sottesi al provvedimento espropriativo, possa considerarsi equo.


PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, secondo e terzo comma, della legge 20 dicembre 1932, n. 1849 (Riforma del testo unico delle leggi sulle servitù militari), come sostituito dall'art. 1 della legge 8 marzo 1968, n. 180 (Modificazioni della legge 20 dicembre 1932, n. 1849, concernente la riforma del testo unico delle leggi sulle servitù militari).


Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 01/04/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Luigi MENGONI, Redattore
Depositata in cancelleria il 06/04/93.

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